Motta canta l'amore con le scale minori, perché la felicità fa paura, è innegabile
Francesco Motta arriva al secondo album solista dopo essere entrato nei 30 da eroe, dopo aver parlato al cuore dei molti che si trovavano nella sua stessa condizione, quella di fuori sede a vita. “Vivere o Morire”, il nuovo album allora di cosa parla, se l’argomento gioventù è stato del tutto sviscerato ne “La fine dei vent’anni”? Del resto della vita, quella con meno pose e più verità, che è fatta di un sacco di zone grigie, di qualche risposta e di compromessi che sembrano via via meno duri.
Motta ha vissuto di musica fin quando era un ragazzino, sempre in giro: quando non suonava era dietro il mixer, così magro che sembrava la mangiasse, la musica. In “Vivere o morire” la musica è cambiata, si è ammorbidita, è stata riempita di strumenti inusuali e delicati, ma nella sua voce conserva tutta l’asprezza del suo passato, come quando ascolti Iggy Pop cantare i pezzi di Goran Bregovic nella colonna sonora di "Arizona Dream". No, niente musica balcanica qui dentro, è solo un esempio.
Chitarra acustica e pianoforte, un milione di percussioni, archi e fiati, poca batteria per come la conosciamo, del tutto assente la chitarra del rock, tanto amore di cui parlare, trovato e perso. Nove canzoni, dal manifesto programmatico “Ed è quasi come essere felice” al diario emotivo della canzone che dà il titolo all’album, fino alla ballata di chiusura, “Mi parli di te”, forse la sua canzone più bella, quella in cui parla del babbo e si lascia andare a tenerezze e passaggi di testimone che non devono essere facili da dire a voce. La voce è in primo piano in tutto l’album, quasi fuori dalla musica, che spesso cresce per trovare abbracci di altre voci, come in “Quello che siamo diventati” o di “La nostra ultima canzone”, ma anche nella malinconia perfetta di “Chissà dove sarai”, che non mancherà di far commuovere anche quelli che non piangono mai.
Per “La prima volta” sceglie un arrangiamento che ricorda Cat Stevens, ma la dolcezza è un po’ il leitmotiv di tutto l’album. “E poi ci pensi un po’” esplora territori simili a quelli del mirabolante ep Calexico/Iron & Wine. Sembra il ponte ideale con “La fine dei vent’anni”, quello prodotto da Riccardo Sinigallia che stavolta non c’è, volutamente, per lasciare Francesco Motta solo con le sue parole, tutte importanti. Al mixer, comunque, c'è Taketo Gohara che si districa tra i tanti suoni di questo album che non cerca spasmodicamente la hit e quindi la trova potenzialmente in tutti i pezzi.
Rimangono le note, spesso le stesse, vestite di altri vestiti e di parole ripetute, spesso d’amore, come ormai avrete capito. L’amore da cantare con le scale minori, perché la felicità fa paura, è innegabile. Non c’è bisogno di citare stralci dei testi, quelli li imparerete ascoltando ripetutamente l’album dall’inizio alla fine, perché “Vivere o morire” racconta tanti pezzi della stessa storia e una volta premuto play, sarà difficile skippare. Sarà invece un piacere sentire queste canzoni dal vivo, mischiate a quelle dei vent’anni ormai finiti e lasciarsi andare come se fosse la nostra ultima canzone.
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La recensione Vivere o morire di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2018-04-09 09:00:00
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