Il passato ritorna sempre e inevitabilmente, anche quando pensiamo di essercelo lasciato alle spalle. Anche quando crediamo di avere voltato pagina. Nella musica e nell'arte in generale, però, tornare indietro e frugare nel proprio passato per poi poter andare avanti può essere terapeutico. Il titolo e il contenuto del terzo album dei Piqued Jacks si reggono proprio su questo e nascono come frutto di aspirazioni coltivate fin dall'infanzia, per continuare a credere “nei sogni, nell'amore, nell'amicizia”. Le idee alla base di questo lavoro sono piaciute così tanto al pubblico, ancor prima di ascoltarle su disco, che il progetto è stato finanziato in crowdfounding. Tra gli spazi sonori disegnati dalla band toscana niente è lasciato al caso: dalle linee di basso che emergono senza sovrastare gli altri strumenti, alla vocalità potente ma calibrata, fino alla produzione di alto livello curata dal londinese Dan Weller.
Lo stile ricorda i primi Incubus e – non so se rientrano tra i loro riferimenti principali ma non me ne vogliano – la parte meno mainstream di 30 Seconds to Mars e Shinedown, ma anche i più versatili Mars Volta, nei loro momenti più lontani da noise e progressive. Da “Sublunary” in poi il discorso viene approfondito, con “Dusty Shelves” e “Don't Hope, Believe!” a chiudere un cerchio di crepuscolare emotività alla quale viene data nuova luce. Italiano di provenienza ma americano nella forma, legato al passato ma saldo nel presente, dall'approccio alternativo ma allo stesso tempo dagli intenti chiarissimi, “The living past” porta alla nostra attenzione degli ossimori e dei contrasti che potrebbero smuovere qualcosa in tutti coloro che si imbatteranno tra le canzoni che contiene.
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