Pugile Icarian 2018 - Electro

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Un’ostica quanto intrigante mistura di elettronica umorale, avant jazz e frenesie etniche per minimizzare le distanze tra popoli e linguaggi.

“Icarian” parte fin da subito col piede giusto laddove, candidamente, si prefigge di riconoscere alla musica una sorta di potere taumaturgico nei confronti di tutte quelle perniciose patologie comportamentali che intossicano la nostra moderna quotidianità: in primis quell’accecante individualismo (simboleggiato da Icaro – appunto – che si libera dal labirinto) che prima o poi, se non ci daremo tutti una regolata, scioglierà irrecuperabilmente le nostre ali di cera fino all’ineluttabile schianto finale.
E un po’ come se il trio torinese volesse, a suo modo, fortificare il sacrosanto concetto del “Nessun uomo è un’isola” (John Donne ve lo ricordate, sì?) caricando oltremodo la propria musica di una trasversalità stilistica e linguistica tale da superare idealmente tutte le contemporanee barriere socio-culturali-razziali, seppur, ahimè, limitatamente all’arco temporale di 37 minuti scarsi.

Figlie di una vis improvvisativa dalle velate connotazioni cinematografiche e di un estro che lungi dal declassarsi a sterile autoreferenzialità diventa nobile espediente di (auto)purificazione interiore, le dieci tracce del secondo album dei Pugile – a tre anni da “Round-zero” – dipanano una panoramica sperimentazione elettroacustica che, attraverso una per nulla conciliante mistura di elettronica umorale, avant jazz, ambient e frenesie etniche, prova a minimizzare le distanze (e le incomprensioni) tra popoli e linguaggi, sacrificando sull’altare di una solo apparente disomogeneità strutturale il compromesso, la melodia e il facile ascolto.

E in quest’ottica, per quanto ostiche, non potranno non affascinarvi le allucinanti implicazioni folkloriche, che si tingono di contorte visioni petergabrielane, di “Bomlw” e “Yunta”, l’ipnotico tribalismo orientaleggiante di “Arab”, la plumbea mediterraneità di “Gelusia” incupita dal contrabbasso di Mattia Bonifacino, l’esotica psichedelia di “Jamas” impreziosita dalla bella voce di Yendri, il jazz transistorizzato di “Mornin Mantra”, con la tromba di Giorgio Li Calzi a trapuntare la notte, il mantra corvino di “Mathila Ya Mulvi” scandito dal “capo tribù” Victor Kwality e la delicatezza atmosferica di quella “Umari Wyt” che sigilla con una cerniera ambientale questa mescolanza di suoni, scenari e narrazioni. Già, perché, alla fine, vi piaccia o meno, è quasi sempre dalla mescolanza che scaturiscono curiosità, bellezza e progresso, e da queste ultime un futuro che sia degno di tal nome.

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La recensione Icarian di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2018-11-26 09:00:00

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