"A60” è un’autostrada del tempo, un non precisato luogo della memoria dove Olden, intende condurci. 9 capolavori del passato "distrutti" e "ricostruiti" tra timbriche, armonizzazioni e, soprattutto, interpretazioni e arrangiamenti completamente rinnovati. E il risultato è davvero interessante
“A60” non è un’autostrada asfaltata, non vi sono caselli e autogrill. “A60” è un’autostrada del tempo, un non precisato luogo della memoria dove Olden, Davide Sellari all’anagrafe, intende condurci. Nove tracce, nove diverse declinazioni del tempo, tutte però condensate nell’arco di un decennio. Quei favolosi anni Sessanta, quell’Arcadia musicale ancora oggi sogno, meta, orizzonte culturale e musicale di riferimento per molti artisti (e non). Classe ’78, cresciuto a pane e mangiacassette dal quale, possiamo felicemente ipotizzare, venivano fuori le voci dei vari Tenco, Endrigo, Olden fonda a Perugia la sua prima band i Roarr, che poi diventeranno (con qualche cambio di formazione), gli Zonaplayd ed infine i Figli di John. E’ questo il panorama all’interno del quale prende le mosse, si sviluppa e si condensa il suo ultimo lavoro, “A60” appunto. 9 brani immortali a cui dare una nuova veste.
Di fatto, nella sostanza, i brani sono identici: stesse parole, stesse melodie ma tra timbriche, armonizzazioni e, soprattutto, interpretazioni e arrangiamenti completamente rinnovati. E il risultato è altalenante con pezzi che funzionano davvero bene ed altri più timidi o svuotati di quell’originalità primigenia. “Resta”, ad esempio, incisa in versione beat dall’Equipe 84, su testo di Mogol, è rivisitata in chiave rock ed è uno dei migliori momenti del disco. Discorso analogo per la sentita e struggente “Fiume amaro”. “E il treno va” con la quale Richard Anthony scala la Hit Parade nel 1963, come già fatto in Francia con la versione francese ha un’impalcatura completamente rinnovata, elettro-pop e manca di quel pathos originale così come manca in “Adesso si” di Sergio Endrigo. Chitarra acustica e tanta malinconia per un’intensa “ Il vento dell’est”. Appassionata, invece, la “Tieta”, in chiave quasi jazz qui riproposta nella traduzione italiana di Sergio Secondiano Sacchi. Suoni un po’ troppo moderni e sintetici per “Tutta mia la città” che, di fatto, risulta essere il brano meno godibile dell’intero lavoro.
Per de-costruire e poi costruire dei classici della canzone nazionalpopolare, e non, ci voleva coraggio e Olden ha dimostrato di averne in gran quantità. Al netto di qualche passaggio a vuoto, il disco fa la sua sporca figura. Prodotto e arrangiato egregiamente, ostenta una qualità superiore alla media. Vagamente rock, Olden tira fuori un lavoro che, seppur ben contestualizzato, come già detto, nei suoi punti di riferimento Sixties, risulta strettamente contemporaneo. D’altronde, un viaggio nel passato, così com’era nelle intenzioni di Sellari, non poteva che essere compiuto con mezzi moderni. Come la DeLorean di “Ritorno al futuro” Olden si pone come strumento ideale verso questa ri-conquista dell’Arcadia musicale, in questo viaggio nel tempo al contrario. E il risultato è davvero interessante.
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La recensione A60 di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2019-03-05 11:00:00
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