Si cambia. E non poco. Dal pop rock (termine di comodo, tanto per sbrigarsela senza sforzarsi troppo) di “Something new” e “Island tales”, usciti rispettivamente nel 2012 e 2016, a “Fonexénos”. Dalle divagazioni chitarrose espresse nelle vite precedenti alle sonorità rilassate di oggi. Con il solo obiettivo di perdersi percorrendo strade mai frequentate prima, alla ricerca di altri stimoli, di messaggi differenti, come differenti possono essere i linguaggi.
Che ci sia qualcosa di nuovo tra i pensieri e le opere de La Rua Catalana lo si comprende sin da subito, sin dalle note iniziali del loro ultimo album. Da quei synth, da quelle drum machine, da quella loro convivenza con il calore degli strumenti ad arco e delle chitarre. Suoni dilatati, avvolgenti, galleggianti tra elettronica e ambient, sognanti, quasi spirituali. Agitati da lentezze profonde (come quelle presenti in “William Walsh”), da respiri etnici (l’India folgorata sulla via di Bristol riassunta da “In 7 violini”, con l’aiuto alla voce di Encen Manaky, richiedente asilo in arrivo dalla Guinea Bissau: già, una contaminazione totale), da schegge che potremmo definire slow-core (“All these days”). “Fonexénos” è da ascoltare come ci trovassimo di fronte a un’unica suite, o a una mini opera prog, terreno per nulla scivoloso sul quale la band campana, in passato, si è disimpegnata spesso e volentieri. Di progressive, tra questi sette episodi, c’è giusto un’attitudine di fondo, che sfocia nel desiderio di sperimentare, nel prendersi la libertà di non chiudersi all’interno di alcun tipo di gabbia. Al netto di una voce a tratti un po’ monocorde, "Fonexénos" piacerà agli amanti della new age più audace e meno scontata.
Vedi la tracklist e ascolta le tracce sul player nella versione completa.