“Io sono un esercito, io sono un esercito”, ripete Sarah Stride in “Un esercito”, come un grido di guerra: la battaglia che combatte il contingente musicale di quest'artista dalle molteplici sensibilità, tutte forti e peculiari, è quella per la libertà creativa e intellettuale, contro le moderne barbarie e contro la schiavitù a cui vorrebbero costringerci certi “assassini” che “non usano una calibro 25 e non c'è polizia che li fermi”, ma “aspettano che i desideri diventino l'unica cosa che conta per poi farli a pezzi, lasciandoti solo i rimorsi, pugnalano le aspirazioni, tutte le buone intenzioni, nessuno li vede e uccidono lenti”.
Quella di questa cantautrice intensa e coraggiosa è una battaglia per il diritto “sacrosanto di chiedere il mio posto ad alta voce”. Combattuta a colpi di mantra pop sensuali e spirituali, mediterranei e nordici, che fanno pensare a una Nada industrial, un Battiato goth – Battiato non a caso omaggiato con “La torre” -, che mesmerizzano come inni sacri innalzati all'unica entità superiore che (forse) potrà salvarci da noi stessi: l'umanità.
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