I Mangroovia staranno al nu-soul italiano come i Mellow Mood al reggae.
La wave black è finalmente giunta anche in Italia, l’ultimo album di Ainé così come la recente vittoria di Sanremo sembrano confermare questa tesi, anche se con Mahmood sarebbe più corretto parlare di urban-pop. Il Bel Paese può vantare una fervida tradizione blues: probabilmente, il primo artista a introdurre determinate sonorità R’n’b nello Stivale è stato, ormai anni or sono, l’arcinoto Tiziano Ferro. La peculiarità che accomuna tutti questi interpreti, da Pino Daniele ai Funk Shui Project, è la capacità di plasmare delle sonorità d’oltreoceano con una cultura e una lingua a cui non appartengono.
Con i Mangroovia vale esattamente il discorso opposto, l’unica critica che mi permetterei di muovere al loro primo omonimo album è proprio la poca propensione all’uso dell’italiano (comunque circoscritto ad un’unica canzone, oltretutto ben eseguita). La forza di questa formazione bolognese, a mio avviso, sta proprio nella particolarità della loro proposta totalmente avulsa dai canoni nazionali.
Ai Mangroovia piace definirsi nu-soul, ma le loro canzoni sono ricche di reminescenze elettroniche e inframmezzi rap di chiara impronta americana: con le dovute differenze e la dovuta proporzione, il paragone che sorge più naturale è quello con i De La Soul. Anche affermare che Zaniolo sia il naturale erede di Totti può suonare azzardato, ma è un giudizio che sicuramente lascia trasparire tutto quel che c’è di buono.
Il groove è la parte più tribale del ritmo, è qualcosa che va ben oltre una sterile definizione tecnica, ed è un termine che si applica principalmente alla musica black, in tutte le sue forme, sintetizzato all’interno di una pianta dalle radici (roots) avvolgenti (e che rimanda senza neanche troppa immaginazione alle tipiche capigliature afro), creando un’immagine diretta e ben poco fraintendibile. Come dicevano gli antichi: nomen omen.
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La recensione Mangroovia di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2019-02-18 09:00:00
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