È inutile girarci attorno: questo disco è bellissimo.
Questo disco è bellissimo. È inutile girarci attorno: non è solo un bellissimo disco hardcore, non è solo una questione di fedeltà a sé stessi, di capacità di reinventarsi, di sfanculare direzioni sonore che sono già state esaurite, di fregarsene delle mode, è un disco bellissimo e basta. Non stiamo premiando la cazzimma dei Quercia, non li stiamo elevando nostalgicamente a sintesi delle band rock che non esistono più, stiamo solo parlando di dodici pezzi della madonna.
Che poi ci siano degli assoli rari come pokémon shiny, delle chitarre imperanti, dei bassi che si mangiano tutto e delle batterie perfette non lo nega nessuno: è un disco rock fatto da dio. La penultima volta che lo ho ascoltato stavo vagando nella galleria di Villa Doria-Pamphilj a Roma, e il barocco stava benissimo su questi suoni. Ma non per questo un album così non appartiene al presente. Anzi, ha dentro una narrazione dei giorni nostri che è il suo vero nucleo, la bomba a orologeria custodita sotto strati sonori di puro impatto.
Che i Quercia sapessero suonare (tutti come dio comanda) lo sapevamo bene, che la voce di Luca Fois sapesse anche scrivere non era certo un mistero, ma che al secondo album arrivassero a questo livello di trasferimento totale di sé nei propri strumenti, forse, era imprevisto. Sono stati bravi a trovarci tutti impreparati. È uno di quei dischi dei quali riconosci al volo la sincerità, per il semplice fatto che ogni due passi ti ritrovi a dire: "parla di me". E non è questione di ganci e occhiolini alla cultura pop come per tutti gli altri, è questione di dolore.
Dolore, dolore senza paura di questa parola, senza nasconderla, ma senza nemmeno ridicolizzarla o prenderla per il culo, come gran parte della canzone italiana oggi fa, più o meno consapevolmente. Se c'è una cosa buona del dolore è che quando viene espresso, quando lo si fa uscire da dove è rintanto, ha la possibilità di renderci fratelli. Non è un granché essere fratelli nel dolore, ma è il principio su cui si basa quel senso di comprensione e vicinanza per cui il cosiddetto "emo" è stato inventato, e che i Quercia hanno qui portato al loro personale apice. In questo album c'è tutta la dignità del dolore, espressa senza rigiri e crogioli, nella semplicità di un linguaggio sì lirico, ma pure dritto al punto.
"Che brutto vizio quello di non farsi aiutare, te ne accorgi solo quando resti solo". Sembra quasi didascalica una frase così immediata nel dire proprio quello che vuole dire, senza metafore, senza figure retoriche. Anzi, il segreto dell'album è forse il suo essere didascalico: non solo nei testi, ma anche nelle strutture, nei suoni, nella ricerca compositiva. È evidente che i Quercia non hanno paura di nessun cliché, non temono in nessun modo la propria creatività, e la fanno andare dove deve, prendendosi tutta la responsabilità del dolore. E se sfocia in "assoloni Iron Maiden" (cit.), in uno strumentale che ricorda gli American Football o nello strillare "tutte le cose che abbiamo perso e perderemo", per loro è in ogni caso profondamente dignitoso. Hanno capito che cantare il dolore è il primo passo verso l'empatia, grande assente del nostro tempo. E guai a chi dice che questa musica non c'entra con quello che viviamo.
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La recensione Di tutte le cose che abbiamo perso e perderemo di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2019-03-18 15:00:00
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