Gian e i Cantautori Atomici partono dall’idea di mettere assieme attitudine cantautorale nella scrittura, testi con un senso e un messaggio da trasmettere e suoni impregnati di garage-rock, di chitarre grezze e taglienti, energia ed intimismo, punk e ricercatezza lirica. Da queste due tendenze cercano di prendere il meglio e farne una sintesi, nonostante l’apparenza opposta. Se il presupposto è certamente nobile ed originale, alla sua realizzazione sembra mancare ancora qualcosa.
Da una parte Gian e i Cantautori Atomici ricordano Il Teatro degli Orrori, ma la penna non è certo quella di Pierpaolo Capovilla e la chitarra non è quella di Gionata Mirai. In questi casi il rischio è di scomodare paragoni un po’ troppo ingombranti e probabilmente inarrivabili.
Il lavoro resta comunque notevole e offre buoni spunti: a partire dal primo brano, “L’amore”, esplicito nella sua tematica, semplice, chiaro ed ironico nel messaggio, ché l’amore “ti dà tutte le risposte, ma son tutte sbagliate […] l’amore è malattia […] per ogni Orlando innamorato ce n’è sempre uno furioso […] l’amore è dipendenza, tu non puoi farne senza, alludo al calcio s’intende”; c’è poi spazio per le riflessioni sul presente (“La ballata del disagio giovanile”) e sulla politica (dalla lotta di “La canzone della rivoluzione” alla nostalgia di “Socialista allo champagne”); mettere insieme Dostoevskij e Bruno Conti (“Democrazia Arlecchina”) è un azzardo non da tutti, in un brano che è contemporaneamente gioco e serietà, un po’ come il Carnevale; e poi c’è il conformismo di “Gente” e la più acustica, ululante e un po’ radical-chic “Discretamente Kitsch”.
Insomma, Gian e i Cantautori Atomici hanno tante buone idee e il coraggio di metterle in atto, ma sono ancora un po’ confuse e da riordinare.
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