Dubbi e sensazioni di un ventenne degli anni Dieci. Inizia in medias res il primo disco di Eugenio Saletti, in arte Sale, che nei primi due versi incastra subito il tema generazionale del suo progetto: “la paura di avere almeno vent’anni/per provare a capire com’è essere grandi”.
Gli echi sonori sono quelli della scuola romana anni Novanta, da Sinigallia in giù. La produzione artistica del padre Stefano, figura centrale della world music nostrana, restituisce immediatamente un elevato livello di pulizia e una dose sanissima di eclettismo e ricerca strumentale, che permettono di inserire nello stesso lavoro, ad esempio, il cavaquinho (cordofono portoghese) e le sequenze, a incorniciare una forma canzone già solida.
Il disco è necessariamente costruito in prima persona (l’io e il noi) e su tre linee temporali: il passato, tempo del cantato (“Certi giorni”); il presente, tempo del vissuto (“L’innocenza dentro me”, “Kafka che fa”); il futuro, tempo dell’immaginato (“Ricordati di me”, “Rimani”). Sale ha un’idea chiara e la porta a termine: raccontare l’hic et nunc di un corpo che cresce e matura, usando la canzone come spalla. Il suo lavoro dimostra che per riflettere sulla propria generazione non è necessario rifugiarsi nell’intimismo autocelebrativo, ma che invece si può provare dare un minimo respiro al pensiero, affidando al futuro speranze oltre che disagio e perplessità.
Sale ha scritto un disco sincero, garantito dalla giovane età, quella che permette di giocare con Dante e Kafka, di rileggere romanticamente gli amori della pubertà (con relativo biografismo) e di fantasticare con le immagini. Sarà un piacere chiedere al suo registro un passo in più nel prossimo lavoro.
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