L’immagine di copertina: Roald Amudsen tra le lande del Polo Sud. Ghiaccio, gelo, desolazione. Metafora dell’inverno del nostro scontento, dal quale si può provare a fuggire aprendo passaggi sotterranei. La ragione sociale: la questione, stavolta, è meno complicata. I Basement 3 sono un trio (chitarre, basso, voce, un minimo sindacale di elettronica), e fin qui ci siamo. Ma guai a lasciarsi sfuggire il richiamo ai Basement Tapes di Bob Dylan e il legame con gli Spacemen 3. Punti di riferimento solidi, robusti, utili ad aprire i passaggi sotterranei di cui sopra.
“Permafrost walkers”, album di debutto dei Basement 3, è un condensato di psichedelia, acid rock e pop obliquo. Che si sviluppa attraverso pezzi cupi (l’opener “Your winter, my summer”), sghembi (“The inner killer sinner sight”), desertici (“The day before”), ipnotici (“Captain sail home”, “Terminal #1”). Non solo Spacemen 3 (nel calderone potremmo aggiungere i Weird Black o i Black Angels meno scalmanati): la lisergica “New shoes” ha dalla sua un retrogusto barrettiano, e poi, “The ping pong battle” non gode forse di una parentela, più o meno stretta, con “Pow r. toc h.” dei Pink Floyd di “The piper at the gates of dawn” (già, di nuovo lo zio Syd…)?
La band lombarda lascia scivolare il proprio suono tra tessiture chitarristiche acide e dissonanti, suggestioni acustiche, paranoie assortite, sinfonie allucinogene. La rinuncia alle percussioni (o quasi, c’è un accenno di batteria all’interno della già menzionata “New shoes”) è pressoché impercettibile, compensata com’è da ritmi a volte dilatati, se non stralunati, elementi tipici del variegato universo psych.
È un bell’esordio quello dei Basement 3, godiamoceli finché siamo in tempo, se non altro per impedire che l’inverno del nostro scontento torni a bussare alle nostre fragili porte.
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