La band di oggi presenta un album dall’approccio black metal con variabili folk, e sembra volerci narrare la storia dell’umana tetraggine attraverso la vicenda di un individuo, in preda ad un caos rigeneratore. In effetti, nel suo percorso di desolazione e demolizione, egli sembra espiare una colpa che cresce progressivamente fino ad abbandonarsi alla luce, al desiderio di infinito. Distruggere per ricostruire, abbattere per riedificare, è la parabola di “The desire to vanish myself”; anche le sonorità alternano il fragore dello sgretolamento alla diluizione della tempesta, in placide note contemplative, e sono proprio queste oasi di lontana brutalità a catturarci di più.
Il prologo sembra annunciare disgrazia e “A strange feeling” innalza subito cattedrali d’odio, quando una voce aggressiva mostra i canini. Poi, l’onda d’urto diventa una brezza di vento leggera che muta in rimbombo assordante, alla chiusura del pezzo. Dove si annida il genio maligno? Forse nel cuore degli uomini. Una cantica lapidaria è in “Through the hallway” che sprigiona sensazioni metafisiche, attraverso una suite strumentale; “A splendid light”, “The thought”, “Trying to reach” e “Moving light”, al centro dell’opera, emanano tensioni dolenti volte a farsi canto elegiaco. Gli spazi popolati da sinistre presenze sembrano sparire, accogliendo echi di luminosa spiritualità. E’ una rinnovata condizione dell’anima, in bilico tra luce e tenebra. Voci grottesche ed oscure cantilene, alternate ad una ruvida grinta musicale, tornano in “The roots of a lost meadow” per sciogliersi nuovamente, con ripetitività, nelle tracce finali.
Un disco che sfocia in un ambient gotico dagli spazi raggelanti e dark, per aprirsi, in alcuni passaggi, ad un’architettura sonora più eterea e luminosa. Sono queste languide digressioni strumentali a piacere di più; quando i pezzi affondano nella violenza metal ci ritiriamo in un mondo più rassicurante.
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