A loro piace rotolare. Rotolare è figo: è un modo per arrivare prima a destinazione, sfruttando le pendenze. Rotolare però è anche rischioso, perché durante la caduta puoi falciare erba e rametti, ma puoi anche trovare il tronco d’una quercia secolare e schiantartici addosso. I Seminole, però, lo accettano e te lo scrivono subito, a chiare lettere, che amano rotolare, così da togliere ogni dubbio. Rotolare nella comunicazione, nel suono e nell’indipendenza. Rotolare anche nella numerazione delle dieci tracce del loro ultimo lavoro (il terzo a partire dal 1997, registrato in presa diretta), che non procedono in ordine progressivo da 1 a 10, ma vezzeggiano un disordine, una tabula rasa al contrario: partono da 11 per finire a 19. Ed il 10? Beh, quello ha il posto d’onore, un po’ come a Napoli la maglia che fu di Maradona. I Seminole, quel 10, lo usano per la title track.
Come so queste cose? Perché sono scritte a chiare lettere in un libretto a parte, di 18 pagine, che accompagna il cd. No. A pensarci bene, non è che lo accompagna: pretende proprio un ruolo paritario. Sì, perché il libretto, anch’esso autoprodotto, è praticamente il manifesto di un progetto più complesso, che va oltre il “solo” comporre e suonare. “Ci piace rotolare…” è pensiero-appendice alla loro musica, estensione verbale che s’affianca al sonoro: non solo testi, ma vere e proprie dichiarazioni d’intenti. I Seminole hanno parole per tutto: per i concorsi musicali, per i critici e gli esperti, per i tavoli ovali delle case discografiche, per i mali della società, per chi “fa” il musicista e chi lo “è” (differenza non trascurabile). Tutto racchiuso nello scrigno di dieci anni di attività, in pagine di sfrontato attacco al mainstream. Attacco che a molti, più che auto-produzione ed auto-revolezza, potrà apparire banale auto-referenzialità: l’ennesimo finto ringhiare e sbavare rabbia sull’overground da chi (ancora) abita l’underground e si rode di starci.
Tante parole. Troppe. Eppure io ci vedo di più. In questo sfogo urlato ma al contempo organizzato, io vedo provocazione ostinata, tentativo di analizzare il sistema e conseguente voglia di fare una scelta. Ci vedo quella cosa un po’ utopica e quasi divina che si chiama consapevolezza. Un punto di vista ulteriore per rispondere a quelli che si chiedono: ma il musicista è un privilegiato o solo uno che spera di esserlo?
Poi, dopo le parole, il suono. Metto il cd nel lettore. E mi si spalanca davanti un attacco un po’ alla "Sonica", un po’ alla "Cara è la fine" dei Marlene Kuntz. Però, seppur restando in Piemonte, non siamo a Cuneo e così i Seminole sanno rielaborare sapientemente e la chitarra riesce quasi subito a trovare dimensione autonoma, allontanandosi dalla citazione ed evitando storture di naso da scimmiottamento in chi ascolta. E’ “Embrioni”, la prima traccia. E mai titolo fu più azzeccato. Perché il rock-noise dei Seminole, dichiarate le proprie intenzioni, onorati i propri ispiratori musicali, inizia a vorticare come l’occhio d’un ciclone che si espande, con intenti affatto pacifici, embrione in gestazione fino al secondo minuto: veramente notevoli quei secondi finali, quando si apre una session estatica alla Sonic Youth di “Pattern Recognition”. In altri momenti dell’album, riconosco qualche tributo alla psichedelia shoegazing di Pale Saints piuttosto che Revolver, con qualche lungo muro di chitarra ma senza pregiudicare mai la voce.
I Seminole richiedono attenzione d’ascolto. Non basta una volta, e guai ad essere distratti. Il cantato, in questi brani, richiama spesso il sacerdotale incedere di Giovanni Lindo Ferretti, la sua cadenza da muezzin (emblematiche, a tal proposito, “Gozzi” ed “In rosso”), a tratti punk, che scolpisce le parole sulla roccia della comprensione di chi ascolta. I testi cercano infatti il messaggio diretto, lo schiaffo di denuncia immediata, senza eccessivi fronzoli. Ma anche l’inserzione intima e nascosta di un dolore provocato dal mondo, che non colpisce mai in modo solenne e glorioso, ma s’insinua infimo e vigliacco, passando per le cose d’ogni giorno. C’è qualcosa, in ciò, che mi ricorda i Massimo Volume. La parola scritta nel libretto si è fatta, dunque, sonora e percorre i dieci brani come scarica elettrica, coerente col pensiero generale dei Seminole (tre esempi su tutti l’invettiva contenuta in “Spot”, l’invito di “Manometti qualunque cablaggio” e la stessa title track, da cui traggo una frase come anatema: “Ci sono giorni in cui torna il sapore… e ancora quel coraggio trasforma e commuove.”). L’originalità dei Seminole va cercata proprio nella capacità di intrecciare pensiero, testo e muro sonoro in modo che le tre componenti si trovino sempre in grande equilibrio, nonostante divagazioni e distorsioni. Ci sono in loro grande coscienza ed equilibrio, sposate ad un disincanto mai velato, gioco ed impegno, in un mix da tenere sott’occhio nel tempo.
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La recensione Il coraggioso di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-09-18 00:00:00
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