Il decanter è un contenitore di vetro che serve a far ossigenare il vino, a ridargli quelle caratteristiche che la costrizione in bottiglia gli hanno tolto. L’introduzione da dizionario, benché banale, è fondamentale per poter dire che mai titolo fu più azzeccato.
Il disco dei Sulutumana, infatti, ha bisogno di tempo, di diversi ascolti per aprirsi del tutto. È molto meno immediato dei suoi predecessori e, in un certo senso, fornisce l’impressione che si tratti di un disco di transizione, in tutti i sensi: transizione intesa come variazione di riferimenti e di stile, ma anche di spostamento vero e proprio.
Il movimento è infatti al centro di gran parte dei brani e non è casuale che il disco si apra e si chiuda con due pezzi legati al viaggio. “Anam-Ji” trae infatti ispirazione da un libro di Tiziano Terzani, mentre “Antemare” ha un testo adattato dalle Metamorfosi di Ovidio, come a dire che viaggio fisico e viaggio interiore sono un tutt’uno.
Quest’aria di cambiamento modifica, come detto, anche le coordinate musicali: il gruppo si allontana ulteriormente dal folk che caratterizzava soprattutto il primo album (“La danza”, datato 2001), dirigendosi verso una canzone d’autore che utilizza stili variegati, che spaziano tra il jazz-swing (“Il tuo culo”) e andamenti più incalzanti (“Il posto che nessuno ha conosciuto”). All’interno di questi rimescolamenti, a farne le spese è la fisarmonica, quasi sparita, mentre qualche chitarra elettrica fa qua e là la sua comparsa. Anche per questo motivo, uno dei principali riferimenti pare essere De Gregori, più volte evocato, tanto a livello musicale, quanto a livello di impostazione dei testi, soprattutto in “Amore d’Egitto” (altro pezzo sul viaggiare: "attendo di incontrarti da altre parti / e non c’è meta verso cui io sia diretto") e in alcuni passaggi di “Volano lontano”. Un altro riferimento cantautorale, che emerge soprattutto nei due brani cantati da Michele Bosisio (“Carosello” e il già citato “Il posto che nessuno ha conosciuto”), è quello di Vecchioni, da cui viene ripreso anche l’uso di citare opere letterarie.
In generale, a livello di testi, sembrano scomparse le piccole storie presenti nei due dischi precedenti, a favore di testi più complessi e sostanzialmente non narrativi, legate a tematiche più astratte; oltre a quella già citata del movimento, altra tematica ricorrente è il passare del tempo e l’importanza (morettiana?) delle parole nella possibilità di superare la dimensione temporale stessa; rientrano in questo filone “Da grandi”, “Inverno in fiore” e “La scopa della strega”, sorta di filastrocca, penalizzata da un arrangiamento non proprio riuscito.
Quest’ultima, tuttavia, è l’unica pecca di un disco complesso, vario e importante, che segna un’ulteriore tappa nella maturazione dei Sulutumana. Un disco che cresce ascolto dopo ascolto e che, in una sola parola, è bellissimo.
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