A voler limitare il confronto con “Porteremo gli stessi panni”, uscito tre anni or sono, le affinità/divergenze con “Luna piena e guardrail” sono evidenti. Da una parte un song-writing più legato alla scena cantautorale, dall’altra un suono nervoso e orgogliosamente elettrico. “È ancora rock’n’roll”, canta Pier Adduce in “Le bonheur”, e questo è quanto.
La band milanese, in un certo qual modo, torna alle origini, riabbraccia le chitarre (mai abbandonate, a dire il vero), le scuote senza tregua, ne distorce il timbro appena se ne offre la possibilità mentre il jack rimane saldato all’amplificatore. Le sei corde trovano terreno fertile tra i pezzi distribuiti all’interno della più recente fatica discografica dei Guignol, che non nascondono i propri legami con il blues (le primissime battute dell’opener “Il vizio” sono abbastanza esplicite al riguardo), e non disdegnano certi picchi in odore di new wave o noise. Un sound maturo e ispido, che trova un contraltare nel reggae spurio di “Un altro modo”, nella tenera “Zio zio” (con un kazoo in sottofondo che sembra omaggiare la quasi omonima canzone di Paolo Conte), nella rielaborazione in chiave mesmerica di “Se potessi amore mio”, di Luigi Tenco.
Le storie messe insieme dalla penna di Pier Adduce finiscono, come spesso accade da quelle parti, per coinvolgere personaggi ai margini dell’esistenza, ben lontani dai frizzi e dai lazzi della leggendaria “Milano da bere”. Ecco, allora, scorrere tra i fotogrammi dell’album, le stanze fumose dei bar, le famiglie allo sbando, gli oppressi, il dramma dell’emigrazione, la vite in cerca di riscatti, i treni da prendere al volo. Un immaginario caro ai Guignol, che trova la sua ragione d’essere in un album caldo e avvolgente, sofferto, duro, profondo. Che, a ben vedere, sono le specialità offerte dalla casa.
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