Un labirinto di corridoi senza uscita, con le pareti che cambiano posizione ad ogni passo mentre cerchi di scappare e intanto ti seguono i tuoi incubi peggiori. Se “Terminal”, disco d’esordio dei submeet, fosse un luogo, probabilmente sarebbe qualcosa di simile: lunghissimi corridoi di un aeroporto affollato nel cui caos la razionalità si stordisce proiettandosi nella dimensione dell’inconscio. La band mantovana in questo primo lavoro sulla lunga distanza ha dato libero sfogo ai propri istinti più oscuri e ai propri tormenti condensandoli in dieci tracce di fumante e ruvidissimo noise sfregiato da lame post-punk da cui talvolta fuoriesce un alito industrial velenoso e letale.
Riascoltando oggi l’esordio eponimo del combo lombardo solo in parte si può intravedere una radice in comune con questo nuovo disco, perché nel primo lavoro i submeet si circondavano di nebbie shoegaze sempre tetre e ossessive ma più dilatate, mentre con “Terminal” rinunciano a qualunque sfumatura di colore per alternare le densità impenetrabili dei bianchi e dei grigi che si sciolgono nei neri disegnando i contorni delle stanze sonore.
Zannunzio (Andrea Zanini), Andrea Guardabascio e Jacopo Rossi, costruiscono brani rumoristici e potenti, talvolta volutamente disturbanti, con una sezione ritmica indemoniata su cui imperversano i grugniti delle chitarre distorte e corrosive al cui cospetto si presenta la voce tenebrosa (forse unico ponte che calcando sulle stesse modalità lega in qualche modo questo lavoro al precedente) e il loro impatto devastante e la vivacità tecnica della band raggiungono l’apice in brani come “Makkathronic” e “BGY”.
“Nell’epoca frammentaria in cui viviamo c’è qualcosa che ci unisce, e a cui non possiamo sfuggire: il rumore”, dichiarano i nostri nella presentazione, e infatti quel “rumore” organizzato di cui si compone “Terminal” alla fine ricorda i lati più grotteschi della realtà che ci circonda, nella quale tutti scappano spaventati da qualcosa (l’incertezza del futuro, la distruzione dei valori, l’annichilimento delle coscienze…) e verso una meta che più si corre più sembra lontana (i labirinti di cui parlavamo all’inizio). Ma nonostante tutto i tre rocker non si danno per vinti: “l’accezione aeroportuale del termine – infatti – volge a uno spiraglio di speranza; è una fine, sì, ma da cui si può ripartire e ricominciare”.
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