Chissà se una parola può far la fortuna di un disco. A volte, nelle strategie di mercato, c’è chi punta sulla provocazione di un semplice termine, ma che termine semplice affatto non è.
Per esempio saturazione, di cui gli Ultraviolet forniscono, in una nota allegata al cd, etimologia, ogni significato possibile fino a quello più alto: saturazione totale, a impregnare il loro e il nostro odierno sentire. Se poi il pacco ti arriva stretto in un fiocco di panno con sopra scritto… (indovinate un po’?), allora è fatta.
La band pugliese esprime musica di tutto rispetto, dondolandosi in equilibrio fra dolcezza e discreta carica rock. Come un tenero adolescente che di restare tale non vuole saperne, per cui decide, a un passo dalla maggiore età, d’imboccare una strada più dura facendosi impertinente. Che conosce la forma-canzone e possiede (cosa non indifferente) un proprio sound. Poi metteteci Gianclaudia Franchini e un cantato incisivo, camaleontico. Benché divorato dalla sua presenza, ogni episodio risulta, in effetti, gradevole, con piccole perle quali “Love street”, “Riempiti di me”, “In trappola”, o di buona fattura (“Quello che ho”, “Teleillusione”, “Respira”, la stessa “Saturazione”).
Terminato l’ascolto, tuttavia, prende a delinearsi il seguente scenario: pezzi frizzanti, ben arrangiati, squisitamente romantici o con la giusta energia. Ma qualcosa non va. O meglio: a spuntarla è la sensazione che manchi qualcosa. Si avverte, in pratica, un’ingenuità di fondo, una sorta di monotonia stagnante che impedisce agli Ultraviolet di prendere il volo. Quella marcia in più, un quid decisivo. Il guizzo, a mio avviso, per arrivare davvero.
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