Ho avuto in mano l’advance tape di questo disco qualcosa come tre mesi fa. Non mi aveva fatto una grande impressione, lo confesso. E nicchiavo un po’, quando incontravo quelli della Macaco e mi chiedevano che ne pensavo. Sbagliavo. Sbagliavo. Sbagliavo. Perché quando qualche tempo fa Macaco mi scrive se voglio recensire sto disco, che me lo spediscono, io, per non far sprecare preziosi cd, riprendo in mano l’advance tape e rimango piacevolmente incantato. Spedite, spedite!
Si vede che il mio primo ascolto era stato fatto un po’ di forza (mica tutti i giorni hai voglia di ascoltare ogni tipo di musica). O che il ricordo dei vecchi Libra, troppo grunge per i miei gusti, pesava pregiudizialmente troppo. Sbagliavo. Sbagliavo. Sbagliavo.
Perché invece questo è un disco davvero diverso. Davvero bello. Tre anni non sono passati invano. Tre anni in cui il leader Alberto Stevanato è andato a suonare il synth nei Travolta (attualmente in stand by), dai quali si è portato dietro il bravissimo batterista Giorgio Trez e certi ritmi serrati ma minimali, oltre a portarsi a casa in campagna acquisti Francesco Doro, dai cittadellesi Miraspinosa. Tre anni in cui Alberto ha suonato (e suona) anche coi bravi Grimoon, con quella Solenn Le Marchand che qui regala tre testi (“Due di notte”, condivisa tra i due gruppi, “Appeso” e “Tu non vedi niente”) e un mondo di sussurri e fruscii notturni. Tre anni di vita, incontri, esperienze, ascolti, amori, gioie e delusioni che in qualche modo hanno lasciato il segno.
C’è una matura consapevolezza, in questo disco. C’è anche una delicata voglia di vivere, fragile come le ali di una farfalla, sospesa in volo a planare sulle tristezze dell’esistenza, impalpabile come il fumo della marijuana.
Fatto di atmosfere tese come un mi cantino sull’orlo di spezzarsi in un bending alla ricerca di una nota impossibile, di voci sussurrate per paura di svegliare i demoni della notte in quel modo di cui i Tiromancino hanno perso il segreto (perso tra le buche nella strada del mainstream), questo è un disco senza mezze misure. Non aspettatevi di comprarlo e trovarlo carino. O vi piace tanto, ma tanto, da ascoltarlo in cameretta al buio come si faceva 25 anni fa, o in una traversata autostradale e notturna in solitario, o stando alla finestra mentre fuori piove pensando a certi sottili baci che chissà se arriveranno, o non vi piace. Se volete sapere da che parti stiamo, vi dirò che una certa amara mestizia dei Valentina dorme non è affatto lontana da qui, così come certe allucinazioni dei Tre Allegri Ragazzi Morti, e perfino il sottotono dei migliori Tiromancino, come dicevo, a mio avviso ben distanti nel tempo, ormai. Testi minimali, che la musica ricopre di poesia. Aria più d’America che d’Inghilterra, ma con quel senso inquieto dei grandi spazi che sta in certe pieghe di “On the beach” di papà Neil Young a cui perfino un vecchio anglofilo come me non può che inchinarsi e sorridere. Ci sono infatti piccole storie oscure che piacerebbero a Tim Burton (“La seconda classe”, con suo brevissimo finale fatto di spiriti che fuggono, “Marta”, “Io resto qui”), di paranoia e malattia (“Strategia del terrore”), amour fou (“Dammi tutto quello che hai”, così come le suddette), squarci sul mondo di pura poesia infantile (“Tv”, “Appeso”, “Tu non vedi niente”).
Gran bel disco, accidenti, che guadagna ascolto dopo ascolto e reclama di farsi riascoltare, intenso, capriccioso e beato. Se non ve lo comprate, non avete cuore.
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La recensione Il viaggio di Zebra di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-09-16 00:00:00
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