Afterhours
Ballads For Little Hyenas 2006 - Rock, Noise

Ballads For Little Hyenas
03/02/2006 Scritto da dabeat

"Hey, may I help you?"
"Yes, cheers, I was looking for the new record by Afterhours."
"Mmm… looks like I've heard something about that…"
"Their label should be One Little Indian."
"Oh, yes, here you go."
"Did you listen to it? Is it any good?"
"I've just played it a couple of times, but seems quite good, I think they're Italians."

Oltre alle "Ballads For Little Hyenas", la versione anglofona dell'ultimo disco degli Afterhours, in omaggio il commento del negoziante.

Chissà come gli è uscito, a Manuel, di fare un disco di nuovo in inglese. Dev'essere perché era assieme ai suoi nuovi amici yankee. Che un po' viene da chiederselo, a guardare questo disco: perché fare una versione inglese di un disco già (ri)uscito in italiano? Intere tastiere sono state consumate su forum vari, discutendo dell'improbabile prouncia inglese di Agnelli piuttosto che delle alterne fortune che le esportazioni musicali italiane hanno avuto, arrivando a giustificare o condannare a priori la scelta fatta. In effetti, ragionandoci a tavolino, un motivo non c'è, o almeno non in modo così evidente.

In realtà, ascoltando il disco qualche ragione la si trova. Semplicemente, questo è un disco differente da "Ballate Per Piccole Iene". Differente nel senso che è migliore. Più cattivo, più tirato, più ruvido. Se li metti di fianco sembrano due gemelli, copertine identiche, tracklist praticamente uguale (la cover di "The Bed", con Greg Dulli alla voce, pur bella, non cambia granchè le cose). I titoli tradotti a volte in modo pedissequo (e perché no? "Fresh Flesh" suona bene quanto "Carne Fresca").

A cambiare radicalmente è l'interpretazione di Manuel: nella maggior parte del disco sembra trasformata, più convinta di quello che canta. Può darsi - forse, ma poco importa - che alcuni pezzi inizialmente siano nati in inglese e ora si esprimano in modo completo, così come erano stati concepiti. Oppure che i testi siano più essenziali, efficaci; forse costretti a maggiore compattezza dalle diverse necessità stilistiche dell'inglese. E' il cantato, quindi - dove la differenza è evidente - a fare la differenza. Eppure anche gli arrangiamenti, sostanzialmente invariati, sembrano migliori, come se illuminati da una luce diversa. Come quando ci si mette una nuova giacca o un nuovo cappello. Si cambia solo una parte ma il quadro d'insieme è radicalmente diverso.

Se questo per gli Afterhours sia il disco giusto per esportarsi all'estero, al di là della coolness data dalle firme di Dulli e Parish, non lo so. Resta il fatto che sia un gran bel disco, di certo non una traduzione di un disco. Forse avrà i numeri per funzionare, chi lo ha sentito all'estero ne è rimasto colpito. Colpito soprattutto dall'immediatezza e dall'incisività delle canzoni. Il fatto che a cantarle sia un italiano o un giamaicano, non conta granchè. E se poi in Italia non piacerà, pazienza, vorrà dire che non tutto ciò che è adatto all'export è fatto per noi.

Vedi la tracklist e ascolta le tracce sul player nella versione completa.