“Va proprio tutto bene”. Esce in un momento storico (marzo 2020) in cui questa frase sembra non calzare in alcun ambito immaginabile l'ottavo disco dei P.A.Y., che si intitola proprio così: “Va proprio tutto bene!”
E a veder loro verrebbe da dire che hanno ragione: dopo 24 anni di militanza nella scena punk rock varesina (e non solo) e 8 dischi, l'acume e l'ironia sono gli stessi degli esordi, la voglia forse anche di più.
Tutti questi anni, e l'evoluzione (o involuzione) della musica in Italia non hanno intaccato il loro spirito punk rock, rimasto fedele a se stesso e a quanti li hanno amati (e pogato ai loro concerti) per così a lungo. Forse questo disco suonerà un po' meno ruvido e pestato di “Virus” (2013) o di “Potevate anche ynvitarci” (1998) ma non appena si inizia a intravedere troppo indie, o una chitarra troppo classicheggiante o cantautorale ci pensa la batteria di “Questa è una rapina”, o l'attacco di “Il gusto che ha”, a riportare tutti a casa. Con tutto il male che le definizioni possono fare agli artisti, questo è un disco punk. Per suono e per attitudine (l'album, tra le altre cose, è stato registrato in presa diretta, scelta quantomai controcorrente e lontana dal mainstream).
Ma non sarebbe nemmeno corretto dire che i P.A.Y. abbiano fatto un disco banale, uguale agli altri, ridondante. C'è del nuovo, gli anni sono passati anche per loro, e scrivere un disco nel 2020 nello stesso modo in cui lo hanno scritto nel 1996 sarebbe stupido, oltre che impossibile.
In “Va proprio tutto bene” ci sono anche canzoni che alzano un po' il piede dall'acceleratore come “Basta Milano”, “Partiamo adesso” o “La mia ragazza è in coma” (cover di “Girlfriend in a Coma” degli Smiths). La chitarra è toccata, la batteria sfiorata. Ma il risultato è convincente. Non c'è pericolo di trovarsi di fronte al solito pezzo “accessibile” che strizzi l'occhio al “grande” pubblico. I P.A.Y. sono rimasti i P.A.Y.
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