Dai Manowar ai The Offspring, le cover country degli Iron Mais hanno uno spirito punk che le distingue dalla maggior parte degli album di rifacimenti improbabili
Fra fine anni ‘90 e inizio 2000 uscirono due album che nessuno ricorderà come capolavori, ma che hanno influito parecchio sugli ascolti degli anni successivi, almeno su quelli “passivi”: ‘In a Metal Mood: No More Mister Nice Guy’ di Pat Boone e Rock Swings’ di Paul Anka. Erano i primi album con cover jazz e derivati di classici del rock e del metal. L’idea di riarrangiare brani del genere eliminando le distorsioni e inseguendo sonorità più antiquate era una sorpresa e una novità divertente, che presto ha fatto scuola e altrettanto presto ha lasciato il posto alla sensazione di già visto. Il vaso di Pandora però ormai era aperto, e negli anni successivi, complici i social, abbiamo sentito qualunque successo vecchio e contemporaneo rifatto in qualsiasi genere. Questa lunga premessa per dire che è difficile oggi stupire, ma anche solo intrattenere con album di cover improbabili di classici del rock. Dipende però dai contesti: se negli USA sono frequenti cover in stile country e bluegrass, legate ironicamente o meno ad un certo immaginario redneck, in Italia è ancora possibile sorprendere con un approccio così ‘poco italiano’. Lo hanno fatto per esempio gli Iron Mais, che all’edizione di X-Factor di qualche anno fa portarono il loro repertorio folk, country, bluegrass e western. ‘Woodcock’ è il loro nuovo album, e mette insieme un inedito quasi country-metal (’Sole’) con una selezione di cover che va da classiconi del rock di varia estrazione ( ‘Smoke On The Water’, ‘Whole Lotta Love’ con intro di ’Kashmir’, ma anche ’Jump’ e ’Final Countdown’) al punk classico e moderno(’Come Out And Play’, ‘Bro Hymn’, I Fought the Law), passando per un paio di pezzi pescati qua e là. C’è da dire che il paragone con le cover lounge, swing e jazz, se ha senso dal punto di vista filologico, ne ha poco da quello musicale: country e bluegrass si prestano bene ai ritmi veloci, alla commistione con chitarre crunch e in generale ad un approccio punk, come insegnano ’16 Horsepower’ e simili. Così, se ’Jump’ viene trasformata in una cavalcata bluegrass mantenendo il suo spirito da pop song, ’Come Out And Play’ mantiene tutta la sua carica punk e sembra quasi scritta per essere suonata con quel riff di violino, mentre l’inno ribelle dei The Clash risulta credibile e selvaggio al punto giusto. Più banali, invece, le interpretazioni di ‘Smoke On The Water’ e ’Final Countdown’, melodie già troppo abusate, o di Thriller’. ‘Woodcock’ sembra dirci che la strada da battere è quella lontana da classiconi già sentiti in ogni salsa, e che passa invece per gemme nascoste di rock e punk, o per l’imprevedibilità di recuperi come quello dei Manowar e della loro ’Kings Of Metal’, che nella versione country mantiene intatta tutta la sua carica epic-metal e quella tamarraggine che, in fondo, da un progetto come Iron Mais possiamo permetterci di cercare.
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La recensione WOODCOCK di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2020-03-11 17:58:12
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