Fanno bene, questi dischi. Ogni tanto ci vogliono. Ti appartengono ma non ne vuoi sapere, affetto come sei da esterofilia conclamata, figli e nipotini prediletti di Notre Dame la Musique. Così, se prima eri beato ignorante, dopo l’ascolto ti scopri beato, lieto d’aver, per una volta, realmente staccato. Stiamo parlando di folklore, nel senso puro del termine. Di un gruppo, i calabresi Kalamu, che non va controcorrente… semplicemente la sorvola.
Over the mainstream, già. Fieri delle proprie radici, custodi appassionati della più genuina forma dialettale, sapienti interpreti di quell’arte popolare tra musica e danza che stuzzica e mozzica, accende lo spirito e ti smuove le chiappe. Tutto chiaro? Pizzica, taranta, tammurriata: ecco le paroline magiche. Con un orecchio alle sonorità balcaniche e braccia tese, non solo idealmente, al continente africano. Locale e universale, Mediterraneo e tradizionale vanno a fondersi in una girandola di ritmo dai sicuri effetti anti-depressivi, mentre Ilaria Cantisani ha un cantato così limpido e spedito che pare rappi. Una delizia, se, ripeto, desiderate recuperare un angolo di bagaglio culturale nostrano. Anzi, fatevi sotto, perché i vostri sensi esulteranno.
I contenuti, poi: oscillanti fra ottimismo, voglia di riscatto, sudore-dolore della terra d’origine, e condivisibili invettive contro U patrunu du munnu, l’abominio di tutti quanti sacrificano forme di vita (naturali, animali) in nome del Dio Denaro.
Il limite, semmai, è nello stesso dna della proposta: i ritornelli insistiti. Una volta l’hai accettata, però, ci sei dentro e tanti saluti. Impossibile star fermi, con questa musica. Unico particolare… saperla ballare. Allora t’immagino in abito di lino bianco e sandaletti. Li togli, sciogli lo chignon e mi sorridi. Ti raggiungo, stiamo già danzando.
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