Alessandro Rocca
Transiti 2020 - Cantautoriale

Transiti
07/06/2020 - 20:04 Scritto da Giuseppe Catani

“Transiti” ti prende a calci. “Transiti è un disco bellissimo.

Dieci anni di lavorazione. Sia benedetta la lentezza, sia benedetto “Transiti”. Un disco bellissimo, che ti prende a calci tra le chiappe. Che fa male, e non solo lì dietro. E che lascia lividi difficilmente rimarginabili.

Non c’è pace tra le dieci canzoni che segnano l’esordio discografico di Alessandro Rocca. Nichilismo, rimpianti, rabbia, contestazione di una vecchia e piccola borghesia che mai il vento è riuscita a portarsi via. E voglia di vivere una vita diversa, lontana dalla sacra trimurti del produci-consuma-crepa. I testi in uscita dalla penna del cantautore varesino non brillano per docilità: si limitano a illustrare, con cinismo e poesia, il disprezzo per la società dell’apparire, il disagio di non avere nulla a che vedere con le umane miserie, il passaggio, spesso doloroso, delle persone, genitori compresi, all’interno della propria esistenza.

“Non voglio avere il mio ruolo nella società”, recita il testo di “Topi”, e siamo già in pieno manifesto programmatico. Rocca, per uscire fuori dall’impaccio, sembra voler adottare una soluzione rimbaudiana, all’insegna del Je suis un autre, quando spiega, in “Licaone”, che “Il mio posto non è qui…, devo esistere, sviluppando vite dietro i pensieri, come ieri immaginerò l’uomo che non sarò”. Uno sregolamento di tutti i sensi, una fuga da una realtà fasulla, dal suo tabù nei confronti della morte e dell’invecchiamento (“Non sai cosa fare per renderti immortale”, da “Nessuno”), dalla sua libertà obbligatoria e condizionata (“I pesci presi nelle reti sono più liberi dei pescatori, gli uccelli chiusi nelle gabbie non hanno smesso mai di volare”, sentenzia “Pesci”). L’angoscia è metropolitana (“Questa città, come bestiame, ci ha marchiato col suo simbolo…, questa città sembra un derviscio azzoppato nello spirito, questa città è la nutrice di un malessere congenito…, questa città è la cloaca di tutte le identità”, riassume la title-track), ma la volontà di sparigliare le carte vince su tutto il resto. È di nuovo in “Transiti” che Alessandro Rocca urla l’insopprimibile desiderio di non arrendersi: “Io voglio vivere, non l’ho scelto, sì,  ma io voglio vivere”. Non è un caso, proprio no, che il disco si concluda con queste parole.

A una poetica così indisciplinata, affatto compiacente, Alessandro Rocca ha scelto di affiancare una musica dalla timbrica severa ma non per questo austera e pesante. I dieci episodi dell’album sono edificati su arpeggi acustici di chitarra spesso lenti, reteirati, taglienti e circolari. Attorno a essi si muovono un violoncello, un contrabbasso, un clarinetto, un mellotron, oltre al suono delle tastiere, del vibrafono e delle percussioni. Che si assumono il ruolo di irrobustire, ricamare, rimpolpare, rintuzzare, impastare i paesaggi sonori dipinti dal Rocca, talvolta con risultati di tutto rispetto (superbo l’arrangiamento di “Mosche”), in una direzione che va parare dalle parti di Vic Chesnutt, Jason Molina o Micah P. Inson. Certi passaggi di “Stipiti” ricordano “Il bombarolo” di Fabrizio De Andrè, “Fossili” rimanda, sia pur per qualche breve istante, addirittura a “Strawberry Fields Forever”. Una sonorità tutt’altro che deprimente, per nulla scheletrica, piena di pathos, emozionante. Tocchi di cantautorato che non si allinea, che non merita di rimanere ai margini. È il caso di ribadirlo: “Transiti” è un disco bellissimo”.

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