Ammetto che, mentre mi accingevo ad ascoltare “1972”, esordio del solista Andreotti, non ero molto fiducioso. Si dice che la prima impressione sia quella che conta; ed è innegabile che alcuni aspetti del progetto si rifacciano (non si sa quanto ruffianamente) a precedenti ben più noti nel panorama indie italiano – a cominciare dall’identità celata e mascherata, e dalla scelta decisamente ironica del nome del progetto.
Si dice anche, tuttavia, che un libro (e immagino per estensione anche un disco) non vada giudicato dalla copertina; ed effettivamente, mettendo da parte (pre)giudizi affrettati, questo disco rivela di avere qualche buona cartuccia da sparare. La scelta dei suoni è uno dei pregi principali di “1972”. Nonostante le aspettative, infatti, siamo lontani dalle classiche sonorità cantautorali voce&chitarra: già fin dai primi due pezzi “Eschimesi” e “Winnie the Pooh” emerge chiaramente che ci troviamo più dalle parti dei Tame Impala che di Calcutta, grazie all’esplosione di synth e riverberi psichedelici e grezzi, che danno ai brani una ruvidezza piuttosto ammaliante. Altro episodio interessante è “Droga”, nella quale delle tastiere spaziali danzano su ritmi dance pop, creando un’atmosfera decadente che ben si addice al titolo della canzone.
Altri lati del disco fanno invece storcere un po’ il naso. La scelta di strascicare la voce nel cantato rende di difficile comprensione alcuni passaggi dei brani, e in un progetto che sembra voler fare della dimensione testuale un aspetto rilevante non è il massimo. Infine, sconsiglierei di buttarsi sulla parolaccia troppo frequentemente: la volgarità è un ingrediente importante e prezioso ma che, se non dosato attentamente, rischia di risultare ben presto stucchevole e posticcio.
Nonostante questi inconvenienti su cui lavorare, “1972” è un esordio con del potenziale, e Andreotti un musicista capace e interessante, per quanto forse un po’ acerbo.
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