C’è tanta America tra la canzoni di Marco Corrao. Quella situata a nord dell’emisfero, con i suoi deserti, i suoi spazi infiniti, la sua polvere. L’alt-folk come stella polare, le ballatone, la chitarra slide che fa capolino, il banjo, ma anche gli archi (o meglio, il synth), il violoncello, l’elettronica, il computer, il contrabbasso e tante altre cose buone dal mondo.
C’è tanta Sicilia tra le canzoni di Marco Corrao. Una Sicilia che muore e rinasce, la mafia che fa schifo, il mare che inghiotte corpi di disperati, i pazzi, le fughe, l’umanità che trionfa, la morte e la vita che si danno del tu.
“Pietre su pietre” è il titolo del terzo album del cantautore di Capo d’Orlando, quasi a indicare un sentiero, una strada da seguire, un percorso come metafora di una esistenza spesa alla ricerca di certezze, di esempi, di narrazioni da condividere. Le storie di Corrao sono semplici e allo stesso tempo dure, sincere, in un certo modo universali: “Bona crianza” nasce dalla colonna sonora di un docufilm dedicato al rito della tonnara, la title-track è una libera reinterpretazione di una poesia dello scrittore Federico Migliarotta. Racconti cresciuti all’ombra di un tappeto sonoro che sembra voler attraversare confini su confini con il massimo della naturalezza: la lentezza è la costante, la già menzionata “Pietre su pietre” rimane l’episodio più brioso del lotto, la scheletrica “Una madre” è lì a ricordare l’essenza del “less is more”.
La forza del nuovo disco di Marco Corrao risiede nel suo vagare tra atmosfere il più delle volte rarefatte, dal fascino particolare e profondo, che sembrano uscire dalle dune del Mojave, tra richiami folk e chitarre lancinanti. Ma è la voce a condurre il gioco, una voce che sembra voler recitare (e in “Gli ultimi” recita davvero), guidare, tracciare rette da intersecare. Dopo aver calpestato pietre su pietre.
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