Più che richiedere concentrazione, questo disco se la prende di prepotenza, esige un orecchio vigile e reattivo. Non si riesce ad ascoltare distrattamente: è una musica che fa fare incidenti in tangenziale e poi lascia portiere aperte in corsia di emergenza, a tirare giù tutti i santi in mezzo al frastuono del traffico.
I Redrum regalano tre pezzi di rock elettronico belli e spigolosi, carichi come il caffè che spezza la sonnolenza del dopopranzo, o l’intuizione che, guardando “Shining”, porta a capovolgere le lettere e tradurre “assassinio” quello che prima sembrava un errore puerile nello scrivere “camera rossa”.
"Disco Macchina" parla alla testa ma fa sentire il contraccolpo in pancia, mescola il futurismo e gli anni ’80, Battiato e i rumori di fondo, i Bluvertigo e l’arco teso dei Chemical Brothers quando preparano il salto per "Hey boys, hey girls". I testi sono raffinati, quasi aristocratici, a metà fra la digressione filosofica e una poesia visionaria che trasfigura anche le immagini più quotidiane. Quando in "Viaggi" la voce intona ”il cervello è una scatola senza bordi, la notte è un susseguirsi di silenzi” la mia bocca si apre stupita: in due versi riescono a chiudere un’ineffabile oscurità in movimento.
Le melodie stanno in piedi come funamboli, quasi sempre cupe e giocate su intervalli minimi, una specie di canto gregoriano adagiato su basi corpose di synth e batteria. Eppure il quintetto non sbaglia un’acrobazia, uno scatto, nemmeno nella custodia fissata con due bulloni o nella scelta degli pseudonimi. Gli undici minuti passano con andatura febbrile e si fanno riascoltare volentieri, come sempre accade se si ha a che fare con qualcosa di impegnativo ma che dà soddisfazione.
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