Mi giro fra le mani il book di questo disco, con la sua grafica minimale e l’interno suddiviso in “scene”, una per ogni traccia, che ne danno la chiave di lettura come “colonna sonora”. Lo sfoglio distrattamente e penso che ho sbagliato ad aprirlo e scandagliarlo subito, prima ancora di ascoltare il disco, perché ora sulla musica dei Jenny’s Joke vorrei poter immaginare altre storie, svegliarmi canticchiando "Red" senza avere negli occhi gli omini gialli che si avviano inconsapevoli all’epilogo tragico dello spettacolo (una vicenda di amore non corrisposto, dolorosa e folle). Mi rimane il dubbio che forse alcuni brani avrebbero un sapore diverso se li scollegassi dalla loro controparte disegnata (soprattutto i tre colpi di forbici della title-track, la nona scena illustrata sulla copertina), e che la scelta concettuale della band finisca a volte per appesantire il loro lavoro.
La sensazione che ci sia qualcosa di forzato resta solo fino a che non faccio ripartire il cd nello stereo: allora le cose cambiano e basta poco a trascinare via l’incertezza. Nelle nove canzoni ogni cosa viaggia malinconica ma leggera, pulita, e si ferma in tempo prima di diventare ridondante. Da "The trip song", scura e misteriosa, fino alla sconsolata "Revolver" il gruppo conserva la capacità di mettere in musica gli stati d’animo, con alcune punte di dolcezza disarmante, belle come le rose fuori stagione, troppo rosse nei giardini in inverno.
Il sound ha qualcosa in comune con i primi Coldplay, i Radiohead, radici che affondano negli anni ’90 ma anche riferimenti più lontani nel tempo (penso ai Velvet Underground, ad esempio), che vengono filtrati e arricchiti con una delicatezza tutta personale. La registrazione è molto curata: anche nei passaggi più “rumorosi” resta una morbidezza di fondo, tanto che a tratti il risultato diventa patinato, però sono pochi i momenti in cui la voce traballa, la musica ristagna e il disco perde forza. È un rock innamorato dei suoni limpidi anche quando si sporca leggermente di elettronica, melodico e semplice ma privo di banalità, con arrangiamenti in cui le chitarre sono sempre in primo piano, e le parti di pianoforte e violino si incastrano senza violare l’equilibrio.
Con "Ninth scene", i Jenny’s Joke tengono in sospeso fino alla fine della storia, la raccontano senza retorica, come un segreto da conservare chiuso nel palmo della mano. Non cercano strade sperimentali ma suonano quello che sentono proprio, da cronisti onesti e partecipi, fino all’ultima nota, quando il sipario si chiude, e la fine è triste e inevitabile. Forse trovo una ragione alla mia avversione alla copertina: avrei preferito un lieto fine. Per ora, mi accontento di aver ascoltato un buon disco, che non ha nulla da invidiare a molti nomi più noti.
Vedi la tracklist e ascolta le tracce sul player nella versione completa.