A due anni da Utopia del quieto vivere tornano gli Amplifire, band milanese capitanata da Marco Nik Nicolini. Si tratta più che altro di una band allargata. Nove membri che -fatta eccezione per il frontman, cantante, chitarrista, tastierista e anima del progetto- si alternano agli strumenti della sezione ritmica, e alla voce.
Gioia Vuota è per certi versi più fruibile del suo predecessore. I motivi principali sono due. Prima di tutto la durata, quasi dimezzata, lo rende di certo un disco più a fuoco e immediato. In secondo luogo la scrittura si è fatta in qualche modo più morbida. Il rock di Nicolini perde un po' di ruvidezza forzata, ed entra in aree ibride a metà tra il prog melodico de Le Orme e il pop. La crescita c'è, soprattutto nelle intenzioni.
La grande pecca di Gioia Vuota, ciò che rende a tratti difficile e faticoso l'ascolto, è la resa. Sembra strano da dire, perchè in un album musicale la resa dovrebbe essere tutto, o quasi. Ma tant'è. La cura rintracciabile nella scrittura viene a scarseggiare in gran parte nel canto. Sono le voci che rovinano il gioco.
In V.A.L.I.S. ci accompagna dall'inizio alla fine un falsetto molto forzato e impreciso. Nella lunghissima Scala Infinita Raffaele Gigliotti e Laura Franzon cantano all'unisono -con una formula che potrebbe ricordare i Baustelle- ma in più occasioni perdono l'intonazione. Ma ciò che più turba durante l'ascolto dei pezzi è la parziale incomprensibilità dei testi, spesso lunghi e -probabilmente- articolati. Per errori nel missaggio o poca scansione dei cantanti, o per entrambe le cose, le parole riescono solo raramente ad uscire dalla morsa dei suoni. Ed è un vero peccato.
Gioia Vuota è un mezzo passo falso, e ci dispiace molto, perchè sulla carta poteva essere un gran bel disco.
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