L’esordio dei Re del Kent ha origini lontane, nello spazio e nel tempo: viene da una lunga tradizione trentennale che comincia con l’esplosione del grunge negli Stati Uniti, si sposta in Italia e si innesta sull’alt-rock di Afterhours e Verdena. Il prodotto di questa unione è Sottocultura, il tentativo di proiettare tutte queste sonorità nei ruggenti anni ’20 del nuovo secolo. Gli elementi sono quelli che ci si potrebbe legittimamente aspettare: una voce roca e graffiante, una batteria che pesta con chiarezza e precisione, un basso che dà forma e volume, e chitarre distorte a volontà.
Il risultato? Mettiamola così: un usato garantito. Se avete nostalgia del periodo della vostra vita in cui indossavate una maglietta dei Nirvana sotto alla vostra camiciona quadrettata, insieme all’immancabile paio di jeans strappati, questo disco sarà un bel viaggio nei ricordi, che vi rinfuocherà il petto di un antico ardore giovanile -complici anche i testi dei brani, che puntano molto sull’immagine del rocker tormentato e outcast, ribelle senza una causa ma dal cuore buono. Se invece volete tornare su queste sonorità per cercare una possibile evoluzione, una progressione, una rimodulazione di ciò che ascoltavate trent’anni fa, rimarrete con l’amaro in bocca: i punti di riferimento che guidano i Re del Kent si ergono mastodontici e inamovibili, senza che trapeli la volontà di superarli per rinnovare il proprio suono e lanciarsi nel futuro.
Un’occasione persa, purtroppo, tanto più per il trapelare della cura e dell’attenzione riposte in questo progetto: purtroppo non bastano da sole a dare quella freschezza al sound necessaria a invertire il declino ormai costante della musica con le chitarre.
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