Galaxies è il secondo album della collaborazione tra il progetto strumentale Jude e la cantante di origini coreane Lemonade, un lavoro dove si incontrano anime sottilmente distanti. Non tanto per il dato della lontananza geografica fra i due autori, ma perché nelle 11 tracce si uniscono i trascorsi del chitarrista nella scena post punk e new wave con tendenze e suoni più moderni, si alternano trame etere e destrutturate con la solidità di ritmiche di ascendenza rock e alternative. Spaziando dagli 1 ai 9 e passa minuti, le canzoni sono tutte costruite su paesaggi dilatati, arpeggi e lunghi plateau di synth ed effettistica varia. Su queste tele agisce la voce di Lemonade, sempre distante, mascherata da effetti e riverberi, da cui però emerge il carattere e la presenza che è un po’ quella di una Elizabeth Fraser oltremondana, nascosta dietro lontananze cosmiche. Alla materia ambient/sperimentale si aggiunge poi la corposità di ritmiche che arrivano dritte dal trip-hop o dalla new wave, inserite nella geografia dei brani più lunghi seguendo una tensione squisitamente post-rock (Bloom, He Said). Lunghe evoluzioni, aperture che si fanno attendere per poi sciogliersi in momenti genuinamente emozionanti ed ambiziosi come melodie ed arrangiamenti, curati e sempre complessi senza dare l’idea di essere troppo affollati. Nelle sezioni di archi, nelle lunghe code melodiche, si legge in effetti la ricerca di una certa grandeur; proposito tutto sommato riuscito anche se talvolta ottenuto con qualche passaggio un po’ didascalico e a rischio retorica. Il progetto del resto prende il nome dal famigerato termine con cui ci si riferiva agli ebrei nella Germania nazista, una scelta di sensibilizzazione assolutamente condivisibile ma portato a termine con il riferimento più ovvio ed esplicito possibile. È un po’ lo stesso sensazione restituita da alcuni passaggi melodici del lavoro, formalmente impeccabili ma poco sorprendenti (Time Traveller). Scelte che comunque si diluiscono nell’economia generale di Galaxies, un album che alterna momenti di forte “non detto“ e misterioso con segmenti ritmici e melodici più diretti. Un album anche lungo, non facilissimo da sentire fino in fondo di fila, ma che anche ad un ascolto distratto trascina subito nella sua orbita enigmatica. Ad un ascolto ripetuto e più attento, invece, può rivelare una visione originale e personale del post-rock, apparentemente poco rock ma in realtà solo sapientemente mimetizzata in abiti più elettronici e sperimentali, indossati dal carisma di una voce intensa e sui generis.
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