Che strazio. Rimango sempre piuttosto dubbioso – o, per meglio dire, scassacazzi – rispetto all’incoerente etichetta folk-rock. Perché da una parte un mambo tipo “Anita” mi affascina, mi seduce. Una filastrocca filo-De André (inchiniamoci) come “La Statua” contiene onestà e raffinatezza. Oppure l'intero impianto ska (“Manodopera”) che avvolge un po’ tutto “Op-là”, il nuovo, secondo disco dei Manodopera, con quei fiati puntuali ed impeccabili, mi diverte. Ancora: la scorrevole “Africa”, con quelle percussioni così fitte. O la voce di Gianluca Nuti, piuttosto anonima ma quantomeno coerente e diligente, pastosa al punto giusto.
L’approccio seriale, episodico, analitico mi diverte sempre di più rispetto alla riflessione generale su dischi come “Op-là”. Cioè: presi uno per uno, i quattordici pezzi fanno segnare tre/quattro osservazioni confortanti. Ad esempio, la seguente: rispetto al materiale in catalogo Upr e ai dischi di genere, i Manodopera si tengono assai più ariosi, larghi, molto intertestuali. Insomma fanno vedere che ci sanno fare, e che “sanno” di musica. Allacciano trame, uniscono (senza mischiare troppo) ska, folk, echi balcanici, dialetto veneto-napoletano, lingua portoghese, ritmi brasiliani e più in generale latino-americani, fino a sfiorare i confini della salsa. Come se riconoscessero nella ripetitività e standardizzazione il nemico fondamentale di una produzione del genere e quindi facessero di tutto per infarcirla di richiami e strutture affini ma diverse. “El Gaeo”, omaggio alle radici venete, accostata ad “Agua Natural”, duetto italo-brasiliano con Etevaldo Marciel Barbosa è emblematico sotto questo punto di vista.
Il disco – incredibile per l’ambito folk-rock – è dunque un piccolo scrigno con tante perle diverse. Ognuna, a suo modo, dotata di senso ed autonomia. Fin qui ci siamo. Il problema è che poi, nell’approccio globale, smarrisci il senso, di dischi di questo tipo. Perché, ad esempio, quello che era un punto a favore leggendo il lavoro episodio per episodio, riportato alla riflessione sul prodotto finale si ripercuote contro: non saranno troppe le farciture, i richiami, i rimandi? Ma poi – ti chiedi - il senso dove sta - al di là delle solite chiacchiere world, folk e via ciarlando? A che serve, nel complesso? Sembra contraddizione, non lo è: l’ascoltatore fruisce traccia per traccia, le gradisce o meno, sta a posto. L’analista deve (provare a) dire se quel disco, rispetto alla media dei suoi conspecifici, procede oltre, aggiunge qualcosa al già fatto. “Op-Là”, in definitiva, è un disco che tecnicamente e per quel che riguarda l'approccio sta sopra la media ed aggiunge sicuramente qualcosa rispetto alla fascia dei prodotti in cui si colloca. Davvero troppo poco, però, per gridare al miracolo. E sperare in un folk-rock che esca dalla riserva indiana in cui vuole rinchiudersi.
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La recensione Op-Là di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2006-05-07 00:00:00
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