Esordio del chitarrista piemontese è una convincente Odissea di suoni mediterranei
Esiste un Mediterraneo fisico, un mare interno abitato da popoli e scambi vecchi di millenni, ed esiste un Mediterraneo dello spirito, una sorta di Sud del mondo che può includere i territori che nel corso della Storia sono stati raggiunti dall’onda lunga della cultura mediterranea, o che le sono connessi dall’alba dei tempi. Uno spazio transcontinentale abitato da suoni più o meno strettamente imparentati, una macroarea musicale che, come un certo tipo di alternative country prende il nome di Americana, a volte viene chiamata Mediterranea da chi la maneggia con approccio sincretico e contemporaneo. Parliamo insomma del mondo della patchanka, del combat folk europeo, di diverse declinazioni locali del jazz in giro per il mondo, a partire da quella manouche per finire al Nuevo Flamenco. Fabrizio Prando, chitarrista piemontese classe 1992, si situa proprio in quest’ambito, guardando ad un Mediterraneo largo dalla posizione di un jazz di impronta fortemente swing manouche. Insieme a una band semiacustica, Fabrizio ripercorre una specie di Odissea chitarristica che parte dal Mediterraneo omerico, tra nuevo flamenco (Skeleton Dance) e melodie dal sapore antico (Iah), per arrivare al swing-tango transcontinentale (Circe’s Tango) e a paesaggi più tipicamente jazz (Jieun). Le nove tracce sono animate da buon gusto melodico, un afflato di romanticismo nomade che ricorda un po’ le trame di Finaz della Bandabardò (Wind Rose), ma anche le peripezie del Paco de Lucia più world (Iah, Skeleton Dance). C’è anche un certo senso del paesaggio molto cinematografico che emerge dagli occasionali interventi di tastiere ed effettistica, simile a quello di altri viaggiatori del folk come i Guano Padano, E’ uno dei punti che forse ci piacerebbe vedere approfondito nel seguito di ‘Wind Rose’, se non altro per come si sposa bene all’immaginario proposto da Prando. Come spesso succede negli album strumentali, in particolare in quelli chitarristici, non manca anche qualche momento più verboso e di minore impatto (Jieun, Big Monkey), che forse potrà interessare di più solo agli intenditori dello strumento. I momenti più ritmici (Skeleton Dance) e quelli più romantici (la title-track), invece, potrebbero catturare una platea più trasversale, nella migliore tradizione di un genere che concilia la tecnica con la fruibilità nel segno del fascino per l’incontro fra suoni e culture.
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La recensione Wind Rose di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2021-03-21 19:22:00
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