Per certi versi, il lavoro del recensore di dischi presenta inaspettate analogie con il lavoro dell’archeologo. Entrambi si ritrovano ad avere a che fare con frammenti lasciati da qualcun altro, lontano -più o meno- nello spazio e nel tempo, allo scopo di comprenderli, interpretarli, capire la storia che suddetti frammenti hanno da raccontare. A volte si tratta di un compito facile, a volte decisamente più ostico.
Memories fade, disco di Marco Giambra, appartiene senz’altro a questa seconda categoria. Formalmente composto da nove brani, la metà di essi sono in realtà poco più che interludi e spezzoni, impressioni di canzoni dalla durata inferiore al minuto. Anche le rimanenti, del resto, non superano praticamente i due minuti, per una durata complessiva dell’album di appena undici minuti. Questa esilità del disco è sia il suo punto di forza che di debolezza: da un lato i brani finiscono per perdere la propria individuale specificità, e dopo qualche minuto si percepisce l’intero disco come un’unica composizione, con momenti che guardano al post-rock e altri più vicini a Burial, a Nicolas Jaar e all’ambient; d’altro canto, è frustrante ritrovarsi al termine dell’ascolto con ancora più domande che risposte, a interrogarsi sul senso e sulla direzione di un progetto che si rivela senza esporsi, sottintendendo un mondo soltanto accennato e mai veramente mostrato.
Come recensori, quindi, non possiamo che essere affascinati e al contempo amareggiati dalla gracilità del ritrovamen…pardon, del disco. Memories fade è una testimonianza che disvela molto poco, ma quello a cui allude non fa che incrementare l’interesse per ciò che ancora giace sotterraneo, in attesa di essere scoperto.
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