Un incrocio da manuale di forme sperimentali e musica più accessibile nell'esordio del musicista napoletano
Quando la musica elettroacustica, i suoni concreti, la destrutturazione delle forme smettono di essere (solo) un linguaggio a sé e diventano un alfabeto di fonemi da usare per arricchire di particolari e dinamicità qualunque materia sonora, forse siamo sulla strada giusta per musica del futuro. Proviamo a dirlo con meno enfasi possibile: semplicemente, in un momento in cui viene spesso da accusare la mancanza di idee nuove, provato ogni crossover possibile, una delle poche barriere che rimane ancora parzialmente in piedi è quella fra un certo tipo di musica sperimentale, quella che viene identificata con un po’ di approssimazione come musica elettroacustica o l’acusmatica, e più o meno, tutto il resto. Una muraglia che negli ultimi anni ha subito le spallate violentissime di artisti come Arca o la compianta Sophie, quelli che hanno destrutturato il tessuto stesso del pop ed elettronica per infilare nelle sue crepe suoni materici e manipolazioni sonore, glitch, gesti e movimenti al là degli spazi tradizionali della musica pop contemporanea. Marculedu segue questa strada, e basterebbe a dirlo la scelta di far curare il mastering delle tracce a Enyang Urbiks, già al lavoro sul recente ‘Kick I’ di Arca. Ma lo dice chiaramente anche la musica del compositore napoletano, un discorso perfettamente in linea con la scuola citata sopra ma meno ipercinetico, con riferimenti in parte diversi. Ci sono le ritmiche intricate, i synth detunati e gli insterti vocali post umani, ma anche il segno più “classico” del chitarrista: l’intreccio di chitarre e violini nelle melodie cinematografiche della title track, una specie di splendido jazz-folk con animo sturm und drang, oppure ancora gli archi nella scomposizione “classica” della complessa Eutacia. C’è il jazz in una delle sue (dis)articolazioni contemporanee, quella dei beat lo-fi, con il punto di incontro tra composizione elettronica e i brandelli di jazz completamente intarsiato di nuovi dettagli e poi destrutturato totalmente, ci sono il free pop e le influenze neo soul che ricordano l’Erykah Badu più sperimentale di ‘Wordlwide underground’. Al di là dei tentativi di collocazione, contano il metodo e la struttura: le sette tracce hanno tutta la complessità di una composizione elettroacustica ricca di particolari e studiata al dettaglio fino all’ultima texture e al minimo movimento; una rete pulsante di gesti e movimenti sonori, manipolazioni e suoni materici, che innerva la trama ritmica ed arricchisce i suoni. Riuscendo sia a prendersi tutto il campo uditivo sia a ridursi al minimo e passare sullo sfondo, come nella transizione tra l’eruzione concreta di Eutacia e con il delicato tocco elettronico del conclusivo Pneuma. E’ un bagaglio che però si mette al servizio della musica e non viceversa, come pure spesso capita di sentire. ‘Libidine’ finisce quindi per essere un ascolto concettualmente denso ma spesso e volentieri immediato dal punto di vista melodico e ritmico, con passaggi che possiamo tranquillamente definire orecchiabili se non ballabili. Lo abbiamo già detto in apertura e lo diciamo di nuovo in conclusione: quando musicisti giovanissimi come Marco esordiscono con una scrittura così trasversale e libera, torna sinceramente un po’ di voglia di sentire che musica ci riservano i prossimi anni.
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La recensione Libidine di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2021-04-14 12:48:12
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