L’uomo deriva dalla scimmia. E l’Africa è la madre di tutti noi, come ebbe modo di sentenziare il cantautore brasiliano Chico Cesar in “Mama Africa”, inno della superiorità terzomondista. Concetti noti anche in Italia, terra di incroci per eccellenza, ribaditi dai Dounia, cavalcatori della world-music da tempi non sospetti, da quando il cosiddetto ammeticciamento è diventato una esigenza insopprimibile e si è lasciata alle spalle gli anni passati nell’isolamento del ghetto di appartenenza.
“Monkey” si apre al Sud del mondo attraverso la pratica dell’essenzialità: essenziali gli arpeggi di chitarra acustica, altrettanto il suono del contrabbasso e delle percussioni, la voce del cantante palestinese Faisal Taher. Tutto attorno fanno capolino un quartetto d’archi (come in “Darabny L’Ayna”), la voce di Hugo Race (nella sanguinante “Hel Hob El Aama”), l’organetto di Riccardo Tesi, il sax di Gianni Gebbia. È quasi un ritmo tribale, che si carica addosso il sapore del Maghreb e del Sahara (“Alhami”) ma ha la forza di sconfinare dalle parti di Rio De Janeiro (ascoltare l’opener “Taracta L’Ayna” per credere), che pretende e ottiene mistica solennità (“Jannu”, con il già menzionato Riccardo Tesi che quasi sembra voler fare il verso a Nusrat Fathe Alì Khan) e paga un inevitabile dazio alla malinconia (“Kadaran”, ma anche “Ustura”).
Un disco che finisce per diventare un lavoro suggestivo, scritto pensando a un allargamento ad ampio raggio: accanto alla semplicità delle strutture musicali brilla di luce propria la cultura mediterranea, che si lascia amare come non sempre accade dalle parti della world-music. Pane per chi ama riappropriarsi delle proprie radici e per chi ne cerca altre, solo apparentemente lontane.
PS. L’unica nota stonata di questo disco è la mancanza dei testi nel booklet. Peccato, sarebbe stato interessante sapere quali sono i messaggi chiusi in bottiglia dai Dounia.
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La recensione Monkey di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2006-02-01 00:00:00
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