‘Siamo senza parole’ è il primo album di Atacama Band, ma solo un altro capitolo di una lunga serie di album italiani di musica strumentale che guardano ad uno o più estetiche del passato con approccio un approccio postmoderno e rinfrescante. In questo caso la materia sonora di riferimento è una miscela di rock anni 70, progressive, funk e fusion, maneggiata dalla lunga lista di musicisti che hanno contribuito all’album insieme ai fondatori del progetto Federico Bartoli (basso) e Giulio Breschi (batteria), che dopo l’abbandono del chitarrista originale dirigono una formazione cangiante e sempre diversa. Forse è così che si spiegano alcuni momenti imprevedibili, come la rock ballad ‘60s muta Orizzonti Verticali e il crossover funk/rock/rap della conclusiva Tasti Dolenti, unica traccia con un contributo vocale (di Davide Calandra). In generale, invece, per un lavoro dal cast così ampio c’è un’omogeneità notevole nella scelta dei suoni e nella declinazione dei riferimenti. Si tratta alla fin fine di una forma di progressive/fusion, che però seleziona ingloba elementi lungo uno spettro musicale che riesce a tenersi abbastanza lontano dalla classica idea di rock e prog anglosassone, o potremmo anche dire più direttamente “bianco”. C’è molto del dinamismo e dei colori del rock latino, nelle percussioni e nel suono morbido alla Carlos Santana applicato anche alla Stronzo di Lucio Dalla, c’è la spinta ritmica del funk, incursioni di fiati e strutture fusion, come l’ambizioso rock afrobeat di Bramo Cireglio. Tutto trova un suo senso in questa sorta di eclettismo ben livellato, che restituisce in un pacchetto coerente una serie di stimoli diversi e declinati in una modalità che sarebbe perfetta per una colonna sonora o una sonorizzazione di qualche pellicola psichedelica di aspirazione afro-tropicale. Sarà banale, ma un dato di fatto che va rimarcato: in Italia questo tipo di operazione sembra riuscire bene a parecchie formazioni, a cui da adesso va aggiunta questa creatura mutante a nome Atacama Band.
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