L'esordio da solista di Alek Hidell è una cronaca emotiva di una tragedia avvenuta ottant'anni fa nel suo paese natale. Un disco che curiosa nei meandri dell'ambiente della psichedelia per ricostruire gli attimi di un disastro.
Alek Hidell, al secolo Dario Licciardi, non è proprio il primo che passa. Lo conosciamo come stretto collaboratore di Iosonouncane, campionatore seriale dietro le quinte di Die, ma anche autore di alcuni remix notevoli, il più memorabile dei quali è senza dubbio quello di Walkthrough di Any Other.
RAVOT è il suo disco d'esordio, un concept interamente suonato e campionato da lui, che ricostruisce una tragedia avvenuta nel suo paese natale Buggerru, in provincia di Iglesias. Nel 1940 o 1941 - la data non è certa - due bambini morirono colpiti da un'onda anomala causata dall'esplosione di un siluro nel porticciolo del paese. Alek Hidell prova con questa strana operazione a ricostruirne la cronaca, più emotiva che fattuale. L'evento è racchiuso nel mistero, testimoniato solo da chi è sopravvissuto ai decenni che sono trascorsi. E così noi estranei alla vicenda riusciamo solo a intuire il significato dei suoni, che grazie anche al mistero che li circonda crescono in bellezza e fascino.
Ravot è una vera e propria miniera di suoni intrecciati alla perfezione, che attinge da molti versanti grazie a furti stilistici e geniali intuizioni del suo autore. La partitura narrativa - che va ricordato, non ricorre mai all'uso della parola - raggiunge una chiarezza sorprendente nella metà centrale del disco, tanto che sembra di trovarsi di fronte alla lettura di una drammaturgia. Ogni cambio di registro trova una giustificazione nel procedere del racconto, nel dare una sferzata all'andamento musicale, e nel farci avere sempre di più la conferma della grandezza di quello che si sta ascoltando.
Dopo l'apertura delle danze affidata a Yolk - unico singolo già pubblicato, preludio spaventoso dove l'immagine del tuorlo evocata dal titolo potrebbe rimandare all'esplosione -, il suono si va aprendo con le tinte epiche che caratterizzavano l'incipit di Die. Ma è solo un bagliore momentaneo, un tributo forse dovuto al suo vecchio compagno di viaggio, perchè da quel momento in poi a primeggiare saranno le percussioni, che insieme a voci modulate e loopate ci inseriscono in un attimo nel clima di angoscia dei soccorsi, della corsa alla ricerca dei propri bambini per assicurarsi che stiano bene. Il brano che spezza il cuore è proprio Motherland, una ninna nanna minimale figlia delle atmosfere da natura spiritata di Mort Garson, un canto al proprio bimbo scampato alla violenza delle acque, oppure un pianto composto per l'estremo saluto.
Da Siel in poi invece iniziano a subentrare le atmosfere ambient. I bagliori dell'impatto si stanno diradando e si inizia a fare i conti con quello che è successo. Le lunghe note dei synth sono acquose, ma subiscono sempre increspature da nuovi innesti di strumenti acustici e campionamenti, fino a quando Blo, una grandiosa raccolta lo-fi di macerie, apre la strada alla contemplazione finale del mare. Let me take a last dive fa parlare il suo titolo, e la sua struttura smerigliata, facendo intravedere una fine che sa di riposo, dopo una stanchezza non meritata. La fine di un progetto più grande di quello che sembra, da riascoltare più e più volte, ringraziando Alek Hidell per questa ventata di bellezza complessa.
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La recensione RAVOT di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2021-04-16 00:00:00
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