Quest’ultimo anno è stata una manata in faccia per tutti. Una di quelle che non ti aspetti, il colpo che non vedi arrivare e che se non ti butta giù, come minimo, va via sbandando per un po’ tipo il figlio di Sting dopo aver perso a poker in Lock & Stock. Nel ciondolare, spesso, ci si pensa un po’ e si mettono molte cose in discussione. Quando è arrivato Avalanche da recensire, stavo appunto ciondolando (still), e devo dire che questo album è stato un piccolo schiaffo correttivo, certo non una carezza, ma comunque qualcosa dalle idee talmente chiare da riportarmi alla mie poche e già confuse certezze musicali pre Covid.
Certezze che metto a fuoco sin dai primi secondi di Desert Daze, con il rullante che inizia a sbattere sul muro di feedback e riverberi in pieno stile APTBS. Certezze come i suoni affidati alle sapienti mani di James Aparicio, mani (e orecchie) che negli anni hanno confezionato dischi clamorosi (Grinderman, Mogway, Spiritualized). E così, come nulla fosse, mi ritrovo a pensare all’ultima volta che ho visto i Black Angels, al profumo di giacche di pelle sudate e al calore degli abbracci da sbronzi.
Il disco suona e le atmosfere guidano i miei flash che si moltiplicano. Al suo termine rimango sospeso in una nuvola di ricordi, giusto il tempo di realizzarlo e casco in perfetto stile Willy il coyote. Dovrei saperlo alla mia età, le certezze non esistono, a volte però basta perdersi mezz’ora pensando ai tempi felici per smettere di cercarle. Almeno per un po’.
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