In Italia sono tanti quelli che tentano di fare pop ma poi, nella sostanza, si riducono a seguire degli stereotipi di genere o scadono in una inconsistenza che li trasforma nell'ennesimo prodotto a buon mercato. Fare pop seriamente vuol dire guardarsi davvero intorno per capire che aria tira e, nel frattempo, provare a chiedersi come soddisfare la propria necessità comunicativa senza rischiare di rendersi del tutto inaccessibili.
Il bolognese Marco Donelli, ex #divanofobia e ora artefice del progetto Lanzafame-drummakkine, deve aver trovato una risposta a molte domande se come risultato di scelte importanti è riuscito a dare forma a un lavoro così bello come Torino è in Piemonte. Bello in ogni senso, sia nella forma che nel contenuto. Godibile ma anche complesso e riflessivo, fruibile da qualsiasi categoria di ascoltatore ma anche meritevole di più ascolti per un'analisi approfondita dei messaggi in esso contenuti.
Il punto di partenza, quindi, è un pop in forma canzone che proprio dal cantautorato prende in prestito le lezioni migliori apprese dalle nuove forze in carica in questa epoca. L'ispirazione originaria è chiara e non potrebbe essere altrimenti, tesa com'è verso il Battiato di La voce del padrone soprattutto nell'apertura di L'intervista. Ma la natura variegata degli arrangiamenti elettronici e una cura del suono molto dettagliata – merito anche dell'ingegno di Gabriele Pacelli di Il Salotto Privato Studio – contribuiscono a inserire nel corpo dell'opera anche importanti riferimenti synth pop – a tratti addirittura techno – con aperture ambient e diramazioni al limite del prog.
Si tratta di caratteristiche che – assieme a testi surreali ma provenienti da una precisa visione della contemporaneità – arricchiscono l'ascolto anche di fraseggi acustici con sembianze di Virginiana Miller o Vasco Brondi degli esordi. Ma il tutto viene miscelato con beat e potenza comunicativa alla Offlaga Disco Pax (Ken parko), echi di Radiohead di ultimo periodo (Muccioli e Detesto), tappeti di fiati e delicatezze orchestrali (La spia) che arrivano a fare anche di un brano del primo Lucio Dalla, Mela di scarto (dal cui testo deriva il titolo dell'album), qualcosa di ancora più malinconico grazie a un lavoro di aggiornamento sonoro indubbiamente pregevole.
Un lavoro di così alto valore, a qualsiasi livello, lo si trova molto raramente.
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