Marco Parente è uno che ti sommerge di parole. Per quanto ci possa essere tra i suoi intenti (non sono sicuro che ci sia) quello di essere minimale, posso scrivere che è un obiettivo che non raggiungerà mai. Doserà anche le parole nelle sue canzoni ma di sicuro non lo fa altrove. Ad esempio, i comunicati stampa: arrivano lunghi, esaustivi e desiderosi di spiegare se stessi e i propri contenuti. Punto per punto. “Quasi a dover giustificare anche i singoli respiri tra un pezzo e l’altro”.
Non è solo una questione relegata a come lui intenda il disco o la figura del cantautore. Tutta la sua musica è un intricato impiastro di rimandi e eterne complicazioni. C’è sempre la percezione di un qualcosa di lungamente elaborato, nonostante lui dica il contrario. Per questo, sentire le sue canzoni con un orecchio “stupido” mi sembra la miglior difesa da un disco che, seppur diviso in due parti, risulta manifestamente pesante. “Ridens” (la seconda parte, il seguito di “Neve”) viene, quindi, ascoltato dal sottoscritto come spesso è mi capitato fare con i Kinks o Squarepusher. Fregandomene. Dandogli poca importanza e facendo altro mentre il cd girava nel lettore.
Lo ammetto: c’è stata la svolta.
Il tipo di ascolto ha aiutato. Il disco è bello, piacevole, caldo. Forse ha quasi ragione a chiamarsi cantautorale, anzi sono contento che si chiami così. Perché la forma-canzone, ogni tanto, va svecchiata con melodie nuove. Lui, con questi pezzi, sembra riuscirci. Nonostante l’utilizzo di lamiere roboanti, rumori gonfi e temporali elettrici. Nonostante questo gioco con gli oggetti che mi può star bene per un gruppo di giovinetti post-rockers ma giusto per loro e pochi altri. Queste batterie di plastica e i loro suoni di gomma. Questa confusione che fa da appoggio alla chitarra acustica o al piano. Nonostante tutto, le canzoni emergono.
Tra gli episodi ben riusciti c’è da appuntarsi: “Amore Cattivo”, per metà fatta solo di pianoforte e voce, ciclicamente ripetitivi, per poi sfociare in uno strumentale rock potente con il sax che sa un po’ dei Morphine. “Neve Ridens”, dove Marco incrocia la sua voce con quella di Marco Iacampo e Manuel Agnelli. “Gente In Costruzione”, il miglior pezzo dell’album, un misto tra Nicolò Fabi, Concato e gli Us Maple. “Ascensore Inferno Piano Terra”, pezzo jazz alla Miles Davis. Quelli proprio no invece sono: “30 Secondi Di Vento”, roba minimale piano e voce abbastanza inutile. “Vita Moderna”, uculele e voce, non dissimile dalla precedente. “Ridens”, pur con i suoi punti deboli, è un bel disco. “Neve” risulta peggiore. Insieme formano un album altalenante. A volte presuntuoso, a volte veramente bello.
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La recensione (Neve) Ridens di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2006-03-20 00:00:00
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