Quanta leggerezza. Quanta sottigliezza nell’affrontare temi universali quali la religione e la spiritualità, l’uomo contemporaneo e i suoi tic, la cacca dei cani. Porfirio Rubirosa (all’anagrafe Giovanni Albanese) è fatto così: scherza ma fino a un certo punto. L’ironia è una cosa seria. Già: l’ironia. Breviario di teologia dadaista ne è pieno sino all’orlo. Un’ironia se vogliamo amara, inserita tra favole, trattati sul consumismo e sull’astrologia (Tolomeo, perché sei morto?), domande sui sacramenti, inserita tra citazioni colte e inaspettate (A Hard Rain’s A Gonna Fall, ovvero quando Bob Dylan tracima, e poi Io se fossi Dio, altra alluvione firmata Giorgio Gaber). Tra i testi dell’album ci si perde volentieri: per ridere, riflettere, commuoversi (com’è tenera Una giornata al sole!), indignarsi, oppure arrabbiarsi, perché no.
La band aiuta. Con i suoi ritmi, le sue fughe e le sue certezze. Lo stile è policromo. Un po’ di tradizione, una spruzzata di rock-blues, un sentore di ragtime, il reggae, lo ska, l’India, la scuola dei cantautori, addirittura un accenno di sirtaki. Collegare un innocuo impasto tra chitarra acustica e percussioni al mantra degli Hare Krisna, poi, è un colpo di genio, anche se sarebbe stato meglio non tirarla così per le lunghe. Tra le tante ospitate, ecco Sir Oliver Skardy, cameo in Il giardino dell’Eden, e Veronica Marchi, chitarra in Giudizio universale.
Tutto molto bello o quasi. Riferimento non casuale agli arrangiamenti, a volte poco incisivi, per non dire deboli. Qualche canzone soffre per mancanza di sfumature, per una corposità che latita, per eccesso di convenzionalità. Un problema non generalizzato, che emerge di tanto in tanto, sul quale si può lavorare. Ma non c’è nulla da dire: nel complesso, stiamo parlando di un disco ben riuscito.
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