Grezzo, sporco, ruvido, malato, imperfetto. Bentornato 'do it yourself'. L'underground vero torna a profumare di varietà e sperimentalismo
Non fermatevi alle primissime impressioni o alle più sterili apparenze perché Ginseng party, il secondo giro sulla lunga distanza del Surreal Sound Project di tale Diego M. – parvenza di un Graham Coxon dal cognome intero non pervenuto – è davvero qualcosa di grezzo, gretto, sporco, ruvido, malato, variegato, mutevole e imperfetto come imporrebbe una seria e veritiera concezione e traduzione nero su bianco di 'do it yourself'.
Oltrepassando a piè pari alcuni evidenti tratti di innocua inesperienza tra discrepanze sonore e inciampi ritmici – stiamo parlando di un ragazzo tra i quindici e i sedici anni, caratteristica che, in realtà, va tutta a suo favore, vista la posta in gioco; e per questo ci concede un pizzico di speranza in più, ripensando un attimo ai gusti delle nuove generazioni – l'attitudine 'one man band' da pura urgenza espressiva da cameretta, che si fa mondo a sé ma in divenire cosmico, porta il nostro a sprigionare un lavoro di notevole interesse per capacità di salto spaziotemporale tra un riferimento e l'altro, senza curarsi troppo della forma basilare perché non è quello il punto, il gioco mira ad altri traguardi e altri lidi concettuali.
Prendendo in considerazione un pur minimo ma presente grado di approssimazione complessiva, percezione da notificare ma da mettere subito da parte dinanzi alla mole di idee calate in tavola, Ginseng party diventa qualcosa di davvero salvificamente sinistro se non proprio perturbante, qualcosa in grado di far riconoscere i limiti di una situazione da primordiale home recording ma, al contempo, capace di porre l'ascolto in una considerevole ambivalenza tra un precipizio stilistico e un trampolino di lancio verso un'idea di rinsavimento interiore.
Il suono di Ginseng party e dell'intero Surreal Sound Project, insomma, ha due facce. Quella più importante porta dritti verso una specie di rinascita ormonale per questioni underground che credevamo riposte in soffitta dopo un paio di decenni di fuoco. Una rinascita fatta notare a gran voce da un approccio lo-fi prossimo, anche stilisticamente, al Jon Spencer più in forma in ottica hard blues, anche con qualche spruzzo di stoner qua e là ma senza calare troppo la mano. Approccio, questo, che subito muta in rock'n'roll coniugato garage alla White Stripes per poi farsi, ancora, succursale psichedelica a metà via tra Queens Of The Stone Age e Kula Shaker, senza disdegnare nemmeno cime di paisley underground – Dream Syndicate su tutti – e incursioni melodiche simil-cantautoriali alla Blur. Ma c'è spazio anche per una madornale iniezione di sperimentalismo estremo tra noise, free jazz, fusion, registrazioni invertite manco fosse Revolution 9, collage concettuali, tasselli subliminali e brandelli elettronici che rendono il tutto ancora più lucidamente folle e disarmante – magnifica, in questo, l'assurdità di Nighthawk. E ben venga anche l'impatto wave imbastardito di britpop – o viceversa – così come lo slow-punk hardcore che chiude le danze in maniera funerea facendo anche un po' il verso a Hey Jude o giù di lì.
Se ancora non è chiaro, i ragazzi di oggi non funzionano solo come dite voi, lassù, dietro quelle scrivanie. L'esempio eccolo qua.
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La recensione Ginseng Party di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2022-02-17 16:22:00
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