Spesso si sbaglia a considerare un padre putativo come qualcuno ormai privo di qualcosa da insegnare. È anzi nei momenti peggiori che la forza delle sue idee più autentiche viene in soccorso come una delle poche ancore di salvezza possibili in una sorta di baratro esistenziale che attira a sé, giorno dopo giorno, speranze e intenzioni trasformandole in desolazione e disillusione. A maggior ragione se quel padre putativo è Massimo Zamboni, già tracciatore di irrinunciabili traiettorie sia sonore che concettuali tra le pagine di una storia personale che – tra CCCP, C.S.I. e solide esperienze soliste – è, di fatto, anche generazionale, capace cioè di guidare intere schiere di teste pensanti verso orizzonti di senso apparentemente lontani ma, in realtà, a portata di mano.
E proprio in uno dei peggiori momenti che l'umanità intera abbia mai vissuto, lo sguardo sempre attento, concreto e inclusivo di un osservatore del reale come Zamboni decide di affinare ulteriormente la scrittura per mettere su disco una personale quanto condivisibile visione d'insieme. Il risultato è un nuovo album in solitaria che parte da un concetto beffardamente caduto in disuso per riportare in superficie tutto il non detto delle circostanze sociologiche che sono causa di un dolore interiore che da personale si è fatto collettivo nel corso dei decenni.
La mia patria attuale, infatti, è una fotografia estremamente nitida di un reale che ha nascosto i suoi lati peggiori fino a trasformare il tutto in finzione quotidiana, caratteristica evidenziata proprio dalle debolezze venute a galla in questi difficilissimi mesi e da ridimensionare al cospetto di ciò che conta veramente, tanto nella vita quotidiana quanto nell'idea di un possibile lascito futuro esente da indisposizioni.
Semplice nella struttura complessiva ma corposo e variegato quanto a forme dense di contenuto, un lavoro come La mia patria attuale consente a Zamboni di mettere nero su bianco una importantissima lettera aperta dopo una lunga notte piena di incubi e riflessioni, come una sorta di flusso di coscienza che affina gradualmente i propri contorni arrivando a sezionare con cura visioni d'insieme e argomentazioni specifiche.
Siamo al cospetto di un album splendido sia sul versante sonoro che sulla sponda contenutistica, delicato ma non per questo docile, anzi ben saldo sulle proprie convinzioni. La predisposizione di base è un folk acustico cantautoriale che non rinuncia a incursioni in un passato personale e ammicca a riferimenti popolari per meglio avvicinarsi a un'accessibilità che spinga l'ascolto verso l'apertura di pensiero.
La qualità sonora è inappellabile, quasi a metà strada tra l'ultimo De André (Gli altri e il mare), Dylan misto a Guccini (Tira ovunque un'aria sconsolata) e incursioni 'ferrettiane' nelle più corpose declamazioni testuali (Canto degli sciagurati e Italia chi amò), con sprazzi di Roger Waters solista accorato e coi pugni in tasca (Fermamente collettivamente) e Massimo Volume nella potenza di certe scelte poetiche (Il modo emiliano di portare il pianto). La sostanza contenutistica, di per sé, è altrettanto preponderante: bellezza terrena mista a disperazione, speranze concrete uccise sul nascere, fughe senza mete prestabilite, doppiogiochismo tipicamente italiota. Ma anche considerazione e accettazione dei propri limiti non come pena da scontare ma come qualità utile a identificare le illusioni, piccoli mondi che diventano grandi universi se osservati con sguardi privi di condizionamento propagandistico. Ed è proprio questa la forza complessiva del tutto, il bagaglio necessario per un viaggio definitivo fuori dall'oblio.
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