Eccomi qui, di fronte al monitor e con le mani sulla tastiera, a cercare (nuovamente invano?) di parlare del nuovo disco di Carmen Consoli. Sarà l'esercizio sempre più raro, col passare degli anni, di raccontare le impressioni suscitate dai vari dischi, ma stavolta l'impresa è ancora più ardua. Perché questo "Eva contro Eva" - non lo nascondo - è un pesantissimo macigno, che ogni qualvolta ritorna sul lettore cd spero che in qualche modo si "sgonfi", diventi insomma più leggero e piacevole nell'ascolto. E invece nulla… nothing!
Perché qui la noia la fa da padrone, costantemente, qualsivoglia punto di vista si scelga per parlare dell'opera. Perciò, sia che si analizzino le canzoni, sia che si passino al setaccio gli arrangiamenti, il risultato finale non cambia, perlomeno alle orecchie del sottoscritto. Che continua a rimpiangere tanto i fasti dell'immaturità seducente di "Due parole" quanto gli spigoli di "Mediamente isterica", produzioni in cui l'artista catanese aveva saputo imporre il suo linguaggio in maniera sorprendente, riuscendo a dividere pubblico e critica come una mela spaccata perfettamente in due. E non credo si tratti di riflessioni dettate dalla nostalgia, perché il disco che portò Carmen definitivamente alla ribalta può essere oggi considerato come il punto d'inizio di un nuovo corso che ci auguriamo si concluda quanto prima. "Stato di necessità", infatti, non si cibava di solo rock, ma rappresentava la tappa di una naturale evoluzione verso soluzioni sempre meno legate alle chitarre elettriche. Peccato che quest'ultimo lavoro dia l'idea di una vera e propria deriva rispetto a quanto iniziato nel 1999, anno che, artisticamente, potremmo collocare come punto più alto di una parabola che oggi ci sembra in una fase sempre più discendente.
Insomma, come suggerisce il collega Stefanel, una vera e propria involuzione - da "cantantessa" a "professoressa"! - di un personaggio che, partito dai centri sociali e dalla nuova onda del rock italiano, si trova adesso a corteggiare il pubblico di vecchioni.
Eppure la Consoli ci sembra sincera, convinta che la sua arte adesso sia sempre più lontana dall'irruenza degli esordi. Peccato che anche le liriche non brillino per originalità, avendo scelto prevalentemente la forma del racconto astratto piuttosto che la descrizione di stati d'animo (sfumatura nella quale è sempre riuscita in maniera brillante). Sicché episodi come "Maria Catena" (dopotutto il migliore del lotto), "Signor Tentenna" e "Piccolo Cesare" sono sbiadite fotografie di una Sicilia che nei suoi risvolti popolari sembra disconoscere la parola "progresso", soprattutto se riferita alle donne. Un tema da sempre caro alla rockeuse, ma stavolta poco incisivo perché inserito in un contesto musicale che stanca, infarcito oltremodo di flauti, tromboni, flicorni, fisarmoniche spesso arrangiati in chiave marcatamente folk.
Il risultato finale è un disco assolutamente interlocutorio (come il precedente d'altronde), che non lascia il segno e - soprattutto - d'ora in poi nella bacheca personale farà semplicemente da spessore insieme a molti altri cd. Che non è esattamente quello che un musicista si augura per la propria arte.
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