Omar Pedrini
Pane Burro E Medicine 2006 - Rock, Pop

Pane Burro E Medicine

Pedrini, pur standomi da sempre picarescamente simpatico per quello spocchiosissimo modo tutto italiano di sentirsi profeti del rock e salmonieri di una religione straniera, mi ha sempre fatto cagare. I Timoria non li ho mai ascoltati granchè, a parte quei singoloni famosi come “Senza Vento”, che va be’ piano piano impari le parole e poi le canti in macchina in stato di ebbrezza (salvo poi negare tutto il giorno dopo, da snob). Da quando ha iniziato a fare il solista, poi, non l’ho mai capito nè ascoltato e il suo nuovo taglio di capelli da fighetto mi era sembrato decisamente troppo. E poi steccava in continuazione, checcazzo.

Sarà che, pur avendolo amato, non capisco il rock italiano. Sarà che mi sembra ormai un genere totalmente da sfigati, da rocker da pub il venerdi sera. Sarà che mi incazzo perchè è provinciale più della tarantella. Sarà che c’ho la puzza di Pelù sotto il naso. O sarà che mediamente i dischi di rock italiano, a parte qualche felice esempio, sono alla luce della Storia infinitamente insulsi?

E’ sempre stato un gioco di compromessi. Quando i gruppi navigavano underground, lo Spirito teneva. L’attitudine era giusta, gli occhi strafatti con un senso di pioneristico in quelle pupille. Insomma, era rock’n’roll, roba buona ce n’è stata. “17Re”, storico e seminale. I puri Diaframma, sempre in bilico fra Verginità, Poesia e ciofeche. I Not Moving. Il Santo Niente. La Milano di Afterhours e Ritmo Tribale. E questo solo per fare alcuni esempi. Poi, chissà perchè, entravano in gioco le nostre major, coi loro grandi impresari. Peccato che di musica ne capissero poco, o che fossero talmente viscidi da imporre ai loro gruppi di non cantare prima di 30 secondi (facciamo il totodiscografico: scoprite chi è). Erano gli anni Ottanta a cavallo con i Novanta, rampanti, eccetera eccetera. Quando le band ivi sbarcavano andavano in mona: l’ha scritto Fiz nell’Atto di Fede dell’Indie-Rock, io lo appoggio. E non è revisionisimo: è un dato di fatto, di Qualità, di fattura dei dischi. Come se, più che di pressioni in senso stretto, si trattasse di pressione psicologica. L’ansia del precariato: ciò che ti porta a rassicurare il tuo capo anche se il tuo capo ti vorrebbe invece propositivo e Vivo.

Ecco. Pedrini è un uomo che sta cercando la sua strada senza capire in che direzione stia girato. Vive di credibilità di rendita, e soffre di pensionamento creativo anticipato. Non riuscendo più a convincere nessuno dal punto di vista compositivo, non ha nient’altro che tentare di convincere i discografici. E allora li adula per essere adulato. Smerdandosi. Inanellando una serie di canzoni che sono una ciofeca dopo l’altra. Un vademecum di come non bisogna fare pop e non bisogna fare rock. La guida al chitarrista preimpostato. La bibbia apocrifa dell’arrangiamento melenso. Insomma, esattamente l’inspiegabile curriculum professionale che porta le nuove promesse a bramare la popolarità cantando dei veri e propri obrobri sul Palco di Sanremo. La differenza con Pedrini è che Pedrini il successo – e un culto - l’ha già avuto, e non deve conquistarlo a tutti i costi. Semplicemente, vuole mantenerlo. E non sapendo dove sbattere la testa, butta in gioco le sue tragiche esperienze esistenziali senza nemmeno avere un briciolo di talento poetico per farci compatire la sua violentissima (e vinta) lotta per la vita. Non infila una che sia una canzone ben scritta. Ed è triste dirlo ma probabilmente punterà a competere con Denny di Radio Italia per racimolare qualche posizione in chart. Io non so cosa sia accaduto laggiù, forse è l’età che avanza o il vecchio che incalza e non regge più. Sono allibito. Pedrini è riuscito a fare peggio di Antonello al Sanremo 2005. Elenoire, ti prego, fai qualcosa.

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