Guarda a sperimentalismi passati ma costruisce ipotesi contemporanee il primo approccio in studio dei Polychron+ di Aurelio Menichi e Gabriele Gai
È un'operazione splendidamente variegata e curata in ogni possibile dettaglio influente, quella che i Polychron+ – al secolo Aurelio Menichi e Gabriele Gai – hanno riservato a un lavoro in studio come She’s Always Been There. Un album che si avvale di collaborazioni preziose – Luc Van Lieshout e Blaine L. Reininger dei Tuxedomoon o Alex Spalk dei Pankow, tanto per citarne qualcuna – e che si destreggia in un mare placido di soluzioni sonore minimaliste ma decisamente efficaci quanto a capacità di trasporto e coinvolgimento complessivo.
Prestando fede, in linea di massima, a una sorta di personalissimo approccio elettronico su cui si innestano diramazioni sia di matrice classica che modernista, Menichi e Gai danno vita a un corpus poetico – sia nei suoni che in un contenuto di valore realmente prossimo al letterario – che non rinuncia a partire per estemporanee escursioni di genere tornando indietro solo se in grado di prendere in prestito vari spunti sonicamente ideologici.
Il risultato è un approdo verso la costituzione di un mondo ideale in cui convergono a dettare legge, al tempo stesso, tatto, delicatezza e predilezione a un'oscurità in cerca di nuova luce, caratteristiche che consentono al duo – e all'ascolto – di spaziare e giocare coi suoni guardando a un'idea di passato – anche personale – per strutturare una validissima ipotesi di proposizione contemporanea. Il tutto costruendo, gradualmente, un necessario sentore di altro mondo spirituale in cui poter finalmente beneficiare di tutto il calore messo in gioco da un lavoro magari non ricchissimo in termini di articolazione sonora ma, senza ombra di dubbio, particolarmente incline a una ricerca interiore ed estetica non di poco conto.
Accettare l'esperienza proposta da She’s Always Been There vuol dire partire da lidi che possono far pensare, anche solo momentaneamente, a esperienze ambient di stampo Ulver con delicato contorno a base di venature di archi e pianoforti, prima di proseguire, però, verso la deriva di un aperture elettroniche con tendenze new age, dove lo spoken word flirta col Bowie sperimentale di metà '90 e le incursioni simil-rap contribuiscono a sprazzi di oscurità industrial prima di confluire verso intuizioni sintetiche anche cantautoriali.
Tutto questo, però, prima di svoltare in direzione Depeche Mode di primo periodo portando con sé elementi acustici e impostazioni saltuarie che strizzano l'occhio a una sorta di elettro-prog sperimentale, senza dimenticarsi di un considerevole bagaglio wave in stile Bauhaus – che si fa anche arpeggiatore analogico nella riproposizione di Tij-U-Wan dei Gaznevada, a cui il duo deve molto proprio in termini di minimalismo modernizzato – così come di sprazzi vaporwave e sinuosità dark-trip hop alla Massive Attack che mettono la ciliegina sulla torta nei momenti di più elevato picco poetico.
Decisamente interessante e da gustare con predisposizione all'abbandono sensoriale.
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La recensione She’s Always Been There di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2022-02-15 16:03:00
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