Diversamente uniforme più che variegato, il nuovo lavoro dei Blue Town indica una via fuori dall'ordinarietà precostituita per cercare un'identità fatta di divergenze
Non serve avere un'idea chissà quanto precisa su quale identità dimostrare di avere o saper maneggiare con cura, specie quando le idee da mettere in gioco sono così tante, di per sé dettagliate ma talmente sfaccettate da riuscire a costituire una forma e una sostanza con la sola forza dell'adesione collettiva. È questa una delle prime percezioni provocate dall'ascolto di 22:22, nuova prova in studio del trio pugliese Blue Town tutta giocata su multipli sia matematici – le durate dei brani, come dell'album stesso – che stilistici in termini di composizione sonora.
La piacevolissima sensazione di spossatezza emozionale provocata da un lavoro come 22:22, infatti, è sintomo di grande cognizione di causa per quanto riguarda la costruzione di brani spesso diversissimi tra loro eppure, tutti insieme, fattori insostituibili per continue moltiplicazioni di piani di lettura e direzionamenti emozionali senza un preciso scopo che non sia quello di far ipotizzare una continua brama di appartenenza. Sposta o modifica la consistenza di uno solo di questi otto tasselli e crolla ogni elemento aderente a un corpo diversamente uniforme, più che variegato. Perché, forse, è proprio il concetto di appartenenza ad essere messo in discussione a causa di un continuo girovagare che finge di essere ricerca di una meta per poi giungere, nella realtà dei fatti, a rappresentare una costante fondamentale nell'economia complessiva dell'opera.
Tutto, in 22:22, concorre a generare una sorta di efficientissimo limbo post-rock tra Mogwai e Ulver che si fregia di esperienze avantpop gustosamente melodiche, aperture elettroniche ambient – anche particolarmente sperimentali alla Radiohead di Kid A e Amnesiac, incursioni glitch analogiche su tappeti pianistici sperimentali in stile Alva Noto / Sakamoto, psichedelia progressive con collage concreti, fugaci derive underground e sprazzi slowcore ma anche britpop e puramente pop rock a stelle e strisce. E poi, dietro l'angolo, quando meno te lo aspetti, ecco spuntare addirittura esperienze swing jazz – sorprendentemente spiazzante When – ma con voci più mefistofeliche che da crooner accomodante, quasi a voler riportare sempre e comunque l'attenzione sui deraglianti binari dell'anomalia sostanziale ai limiti del perturbante.
C'è sempre più bisogno di lavori come questo per riuscire a contrastare l'abominio della normalità, quella non meglio specificata coazione a ripetere che fa delle nostre vite, spesso, qualcosa di orribilmente inutile a noi stessi.
---
La recensione 22:22 di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2022-03-03 15:46:22
COMMENTI