I Messa superano la prova del terzo album con un lavoro a cavallo tra doom, jazz e folk globale
Diciamoci la verità, i Messa potevano andare avanti così per un bel po’ di tempo. Avevano già tutto: doom gotico con un pizzico di Sabbath, un tocco di modernità folk/jazz, una voce carismatica ed evocativa, insomma abbastanza bastanza da costruirsi, con ‘Belfry’ e ‘Feast For Water’, un piccolo seguito appassionato e un’intensa attività live in giro per l’Europa. Che di questi tempi, per un gruppo metal, italiano e con una frontwoman sul palco, non è poco. Avrebbero sicuramente potuto giocarsela in maniera più prevedibile, invece di lavorare ad un album ambizioso come questo nuovo ‘Close’. Non un album rivoluzionario, nel senso che un’identità della band padovana non esce stravolta, ma un lavoro che allarga ulteriormente lo spettro dei loro riferimenti sonori e del loro linguaggio al punto da fargli eccedere i limiti del contesto musicale metal, a cui non è sbagliato ascriverli. Limiti a volte angusti, ma che sono più malleabili di quello che siamo abituati a considerare, se è vero che ‘Close’ riesce a rimanere un album eminentemente metal pur abbracciando da un lato modalità jazz e dall’altra sonorità (passateci il termine) world/etniche e folk.
Quando parliamo di metal e jazz solitamente parliamo di incastri ritmici cervellotici e strutture libere, ma il lavoro dei Messa si colloca perlopiù su un altro piano, quello della dinamica e del timbro, con ottoni, assoli di chitarra pulita e piatti leggerissimi che permettono di alleggerire il tocco e diversificare le voci. Discorso simile sul versante folk/world: dove la musica pesante ci ha abituato spesso a esotismo di plastica, con tastieroni dozzinali, estetica banale e patacche varie, in ‘Close’ ritroviamo suoni organici, accenni di costruzioni ritmiche altre rispetto agli standard del rock/metal occidentale e soprattutto un’atmosfera avvincente e convincente, quella di un (altro)mondo spirituale, nascosto e ctonio, che ha per sua natura una dimensione globale. Gli ottoni cupi di Orphalese disegnano paesaggi ieratici con un tocco neo folk tra i classici Dead Can Dance e i più moderni territori dark ambient/folk, Pilgrim è un mid-tempo implacabile e magnetico sulle coordinate di Wherever I May Roam dal ‘Black Album’, ma che mantiene in primo piano il carattere sghembo (almeno alle nostre orecchie) del materiale mediorientale di riferimento, senza ridurlo del tutto alla tirannia del quattro quarti e del sistema temperato occidentale. Hollow dal canto suo, lancia il cuore oltre l’ostacolo presentandoci centoventi secondi di cordofoni mediorientali, in un passaggio paragonabile a quei momenti acustici dello storico ‘Roots’ dei Sepultura: pochi secondi che riescono comunque a incidere, molto più di quanto sarebbe facile immaginare o descrivere, sull’economia generale del disco e del suo immaginario.
In realtà, quantitativamente, i pezzi con forti influenze etniche o jazz non coprono la maggior parte della tracklist né del minutaggio dei singoli pezzi: più che spiattellando esotismo e suoni didascalici, i Messa riesco ad evocare luoghi e culture distanti lavorando sull’occulto, sulla sacralità senza tempo e sulle sottili connessioni di immaginario (e quindi musicali) che accomunano tutta l’area mediterranea e mediorientale. Così, il senso generale dell’album, il concept dichiarato fin dalla stupenda copertina, rimane in primo piano anche quando non ci sono le classiche melodie orientali o gli strumenti etnici, quando l’ibridazione tra incedere doom e codici rituali è più sottile e passa attraverso un tocco jazz (0=2), quando le strutture dei pezzi e le melodie si dirigono verso più classici territori albionici o quelli blueseggianti dello stoner. L’abbondante Dark Horse ricorda da lontano alcuni tratti degli Iron Maiden anni 2000, i cui flirt con il folk forse non sono stati abbastanza compresi, If You Want Her To Be Taken prende dal lato più psichedelico i dogmi stoner e anche la scheggia estrema di Leffottrak, puntando su blastbeat e atmosfere black rompe lo schema generale ma mantiene dritta la barra su rotte occulte e nebbie mistiche.
Quella barra che mantiene con decisione ‘Close’ nel novero dei dischi più interessanti che ci è capitato di sentire in area di musica pesante, italiana e non, da un po’ di tempo a questa parte; proprio a cavallo tra i lineamenti familiari che ci aspettiamo di trovare in un disco del genere e le ventate di aria fresca che arrivano, finalmente, da altri territori e linguaggi sonori.
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La recensione Close di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2022-04-21 20:56:11
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