Spazi ambient-blues nel nuovo lavoro del chitarrista siciliano
Ambient-blues potrebbe essere una buona definizione per l’ottavo album del chitarrista siciliano Stefano Meli; non tanto per amore delle etichette, ma perché ci sembra una buona esemplificazione delle sue coordinate essenziali e del processo produttivo: blues perché la voce narrante è quella di una chitarra elettrica e del suo amplificatore, articolata in arpeggi metallici e pentatoniche; ambient perché il discorso prende forma e si evolve sviluppandosi nell’ambiente circostante, quello creato artificialmente da più delay in combinazione, e quello della casa di pietra nuda dove ‘Apache’ è stato registrato. Rincorrendosi e rimbalzando negli spazi sonori artificiali dell’effettistica e in quelli materici delle mura di pietra, il suono della chitarra di Meli si incontra con se stesso, si accumula e va in feedback irrochendosi e generando increspature imprevedibili in un impianto generalmente morbido e riflessivo.
È un suono semplice ma ricco di suggestioni e colori, di sfumature adatte a sottolineare le pieghe dissonanti, i momenti in cui le note blu si manifestano con più forza. Fugacemente, nella tela di note riverberate, oppure prendendosi il loro spazio come nell’elettrica Fight or flight o nel finale acustico con banjo A casa e ritorno. A questi due momenti meno ambientali del lavoro, interessanti ognuno a suo modo, non è facilissimo arrivare per via della durata complessiva del lavoro e di molte le singole tracce, spesso intorno ai sette o più minuti. Forse allora, in parziale controtendenza con prodotti di questo tipo, ‘Apache’ può essere un lavoro buono per la fruizione a piccole dosi, che siano quelle degli episodi più brevi e incisivi o quelli che già da soli hanno una dimensione spaziale e temporale sufficiente a farci perdere nel grandi ambienti evocati dai nomi, tutti ispirati alla cultura nativa americana, dell 9 tracce.
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La recensione APACHE di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2022-05-06 00:00:00
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