Il bene comune è il titolo del secondo album del collettivo jazz sperimentale Ghost Horse, ma è anche una traccia metodologica, se non etica, sullo spirito di queste sette tracce. Il bene comune è sempre frutto di un delicato equilibrio di spinte individuali, sintonia, sincronia e compromesso; in politica come in musica, quando più test e mani lavorano improvvisando con un canovaccio e un obiettivo comune, ma percorsi e attitudini differenti. E il processo creativo è proprio a un meccanismo di improvvisazione alimentato da jazz di matrice classica, con post-rock, materia sonora destrutturata, densi tessuti percussivi dall’anima tribale.
Il risultato è un paesaggio in cui sonorità rassicuranti si presentano in una veste inquietante e in cui i territori più rarefatti e imprevedibili sono innervati di melodie e ritmi riconoscibili, passando attraverso colorazioni noir, sfuriate elettriche, gestualità da big band. Una progressione fino alla title-track conclusiva: dieci minuti dove diverse iterazioni dello stesso loop si ripetono e si intrecciano, una sorte di frattale sonoro che fa da quadratura del cerchio e sintesi del metodo sperimentato nelle sei tracce precedenti, sciogliendone le tensioni nell’abbraccio dei fiati.
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